Razionalità, valori, credenze sono tre parole che si intrecciano tra di loro, ma che al giorno d’oggi possono essere formulate come tre dilemmi, devono essere formulate come tre dilemmi. Razionalità: ma quale razionalità? C’è una sola ragione? Ci sono molte ragioni? E, qual è la ragione capace di produrre argomenti veri? E infine: sappiamo che cos’è ragione? E in termini personali ci chiediamo, ci interroghiamo sulle ragioni del nostro agire sino in fondo o ci lasciamo agire? Capite bene che già intorno alla prima parola emergono interrogativi, dilemmi; è tutt’altro che chiara.
La seconda parola è: valori. Direi che è diventato un luogo comune, quasi fastidioso, il dire che c’è una crisi dei valori. Eppure evidentemente c’è in questo luogo comune una verità: la percezione di una perdita di orientamento, l’incertezza nella misura delle scelte. E allora qui si intreccia la prima parola con la seconda. Come argomentiamo i valori, come li sosteniamo, come li assumiamo, come li difendiamo? Anche qui un grappolo di dilemmi.
E la terzo: credenze. Da un lato si dice che siamo in una società ormai secolarizzata, che non crede più a niente, che crede sempre meno. Dall’altro verso è da dire che siamo in una società omologata, e da questo punto di vista l’omologazione non è altro che una forma diffusa di creduleria. Quindi abbiamo persone, credenze per cadere in qualcosa di peggiore, in una sorta di conformismo di massa. Essere performati da meccanismi pubblicitari, da ideologie correnti, diciamo da parole d’ordine: il neoliberalismo, la globalizzazione... Dall’altro abbiamo una, invece, riapparizione conflittuale di credenze, che sono le varie forme identitarie che si sono rafforzate, anziché essere diminuite, nell’età della secolarizzazione, le identità religiose, Islam e Occidente. Ma non solo Islam e Occidente, questa è quella più dominante, ma ce ne sono anche altre, altre forme di identità localistiche, etniche, tribali, e queste identità sono radicate in credenze. E le credenze quando sono vive sono difficili da sdradicare. Neanche la violenza ci riesce, perché in un certo senso rinascono ,e quindi, le mutazioni di mentalità hanno bisogno di processi molto lenti, molto pazienti. Anche qui, come vedete, dilemmi.
Cercherò di analizzare un poco di queste tre dimensioni, il gruppo di problemi che evocano e come stanno insieme, come costituiscono in un certo senso delle interfacce di un unico processo. E una volta identificato il processo cercare di vedere in qualche modo come si risolve, come si può uscire da questi dilemmi, quali soluzioni si possono approntare, o quanto meno quali condizioni favorevoli per le soluzioni si possono produrre.
Razionalità: cos’è la ragione? Partirò leggendo un testo celeberrimo, che è la risposta che Kant diede alla domanda “che cos’è l’Illuminismo?”. “L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dalla condizione di minorità di cui è egli stesso responsabile. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di altri. La responsabilità di tale minorità va attribuita all’uomo stesso quando la sua causa non risiede in una carenza dell’intelletto, ma dipende dalla mancanza di determinazione”. Rileggo, poi commenterò. “La responsabilità di tale minorità va attribuita all’uomo stesso quando la sua causa non risiede in una carenza dell’intelletto, ma dipende dalla mancanza di determinazione e di coraggio nel servirsene compunto senza la guida di altri. Sapere aude, abbi il coraggio di servirti del tuo stesso intelletto”. E’ questo il motto dell’Illuminismo.
Qui c’è la formulazione della ragione moderna, nel suo momento più alto e la cifra di quella che noi chiamiamo razionalità occidentale. Quella razionalità che ha una sua peculiarità, che ha una sua identità, che è occidentale, che noi evidentemente non possiamo esportare, che però ha un suo carattere, una sua dignità. Non possiamo esportarla, certo, ma non possiamo neanche rinunciare a questa razionalità. Perché questa razionalità siamo noi stessi. Questa è corpo, sangue e vita dell’Occidente, e soprattutto della modernità. E soprattutto – ancora un altro tema che meriterebbe un’altra considerazione – di quella che noi oggi chiamiamo la laicità. La laicità è appunto l’intelletto che autorizza se stesso in base a se stesso. Uscire dalla minorità vuol dire non essere soggetti a guida altrui, quindi è l’autodeterminazione. Capite bene che tra ragione, così intesa, e libertà c’è una radicale intimità. L’autodeterminazione, appunto, consiste nell’essere liberi. Ma la libertà c’è nel libero uso dell’intelletto. Cioè l’intelletto, la ragione, espone le sue ragioni e in base a questo agisce, si confronta con le ragioni altrui e le prende sul serio. E non può non prendere sul serio, e non sarebbe ragione se non prendesse sul serio gli argomenti degli altri. Ma alla fine, preso atto di quello che gli altri sostengono, è capace di decidere e di sviluppare una sua azione, essendo titolare di scelta. Questo è il modello dell’uomo occidentale, il tipo d’uomo, il tipo di razionalità. E quindi vale la seconda parte: l’uomo è responsabile di quella minorità, cioè di quella dipendenza, che è da imputare a se stesso. Dunque, non la minorità che nasce dal fatto di una condizione oggettiva di minorità - o del fatto che si è costretti a dire e a subire una violenza -, ma quella minorità che nasce dal fatto che il soggetto non si accorge di essere dipendente, non sente come peso la sua dipendenza. E quindi non cerca e non sviluppa le sue condizioni di libertà, responsabile appunto in quanto pigro. Ecco perché subito dopo Kant dice: “Sapere aude”, la razionalità esige coraggio, esige forza, esige capacità di ribellione e di denuncia e di resistenza. Senza queste caratteristiche, senza il coraggio, non è possibile l’esercizio della ragione. Senza la fortezza non è possibile l’esercizio, la ragione non ha paura. Questo è l’Illuminismo: la ragione non ha paura, la ragione non deve temere. Ecco, questa ragione che è sfida, che è autonomia del soggetto, che è condizione di libertà, nel corso della modernità ha perso questo profilo, quasi impalpabilmente. Ha trovato una sua interna, lenta, degenerazione; è quantomeno cambiamento di obiettivo. Perché questo soggetto che dovrebbe essere, appunto, titolare di se stesso, capace di decisione, questo soggetto - nella storia che va dal Settecento in avanti, chiamiamola nella storia dell’emancipazione - per un verso ha cercato di emanciparsi in modo incondizionato. Vale a dire che questo soggetto ha avuto una pretesa di onnipotenza, dall’autodeterminazione all’idea che si potesse agire senza più vincoli. In questo modo la libertà ha perduto se stessa, perché la libertà senza vincolo non è più libertà. Perché l’idea stessa di scelta suppone il vincolo: se non c’è vincolo non c’è più scelta, e c’è disorientamento, deriva. E noi abbiamo avuto una perdita di libertà per eccesso di libertà. E quindi, stranamente, la titolarietà dell’azione, che nasce dalla libertà, è naufragata sostanzialmente in una totale indeterminazione. Dall’autodeterminazione alla indeterminazione; ecco una patologia della libertà. E infatti oggi noi ci troviamo in una società – soprattutto quella occidentale – che vuole tutto e il contrario di tutto, ed è sempre scontenta; pretende senza decidere e quindi è incapace di volere. Bisognerebbe leggere anche qui dei passi interessanti, molto belli, di Mendelson, sulla differenza che lui fa tra civiltà e rischiaramento; l’Illuminismo come rischiaramento. Per l’altro verso la razionalità ha preso un altro tipo di profilo, cioè la ragione è diventata una razionalità senza fini, una razionalità procedurale. Oggi, spesse volte nella nostra cultura si parla di procedura, anche la democrazia è definita una procedura. E’ difficile avere la democrazia sostanziale, dobbiamo accontentarci della procedurale, perché se perdiamo anche quella e in questo ci sono buone ragioni. In che cosa sta la ragione? Sta nel rapporto tra i mezzi e i fini. Poco importa la bontà del fine. La razionalità sta nella proporzione tra il mezzo e il fine. E’ chiaro che una razionalità di questo tipo è una razionalità tendenzialmente procedurale e strumentale. Razionali sono sempre gli strumenti, mai i fini. E se la razionalità si decide in base alla proporzione tra i mezzi e i fini, be’, l’esito di questa razionalità può essere la cecità. Quindi il fine viene messo tra parentesi, e quello che viene evidenziato è invece il rapporto, la proporzione tra il mezzo e il fine che si è scelto, qualunque questo fine sia. Da qui emergono i modelli tecnocratici della nostra società. La nostra società è una società tecnocratica in cui non è tanto la bontà del fine quanto il raggiungimento del fine che costituisce valore. E allora si è razionali se si è abili a raggiungere il fine, qualunque esso sia, indipendentemente dal suo valore. E quindi questa razionalità è efficace, ma perde gli obiettivi. Noi siamo in una società che ha grandissime performance in termini di efficacia, però ha una incertezza e una indeterminatezza del fine. In fondo, e tornerò nelle conclusioni del mio ragionamento, se voi pensate alla globalizzazione, la globalizzazione entra nel fenomeno di razionalizzazione delle politiche economiche e delle politiche finanziarie, della tecnologia... il grande fenomeno di razionalità tecnocratica. Ma questo è sufficiente per pacificare il mondo? E’ sufficiente per dare al mondo un senso, un destino, una unità? Ecco, allora, dinanzi a una libertà che si è dissipata c’è una razionalità che si è frammentata. E quindi abbiamo uomini che non sanno quel che fare perché non sono titolari di decisione, e ci sono uomini e organizzazione che sanno bene quel che fare, ma non sanno a cosa determinarlo, a cosa destinarlo. E quindi la decisione della razionalità è tutta su tempi brevi, su situazioni immediate, è come se uno traslocasse costantemente per trovare pace. Allora l’abilità della prestazione di per sé non assicura la bontà della destinazione.
E allora è chiaro che, a questo punto, c’è l’istanza o il bisogno mai tramontato di una diversa razionalità, quella che gli antichi chiamavano “la prassi”. Aristotele distingueva tra la “prassi” e la “tecnica”. La tecnica ha fini limitati e si esaurisce nel raggiungimento di quegli obiettivi. Se io devo fare un buon tavolo, devo avere una buona tecnica, ma questa tecnica non mi serve più quando io ho fatto quel tavolo. Mi servirà per un altro tavolo. Ecco, la tecnica è quella procedura di competenza, la cui funzione si esaurisce con la realizzazione dell’oggetto. La prassi, invece, è il senso che noi diamo al nostro agire. Il senso che diamo alla nostra vita. Allora, ogni tecnica prende significato dentro una prassi; se non c’è una prassi che orienta le tecniche noi abbiamo procedure efficaci, ma insensate. Cos’è la prassi? La prassi è il significato che dò io al mio essere nel mondo, e quindi anche il significato che io dò al mondo. E’ il valore. Ecco, l’azione deve essere orientata a valori. Se non è orientata a valori è, appunto, insensata.
E noi siamo in una crisi di valori. Cosa vuol dire che noi siamo in una crisi di valori? Ci sono stati dei grandi pensatori che hanno riflettuto su questo. Carl Schmitt ad esempio dice che la nozione di valore è una nozione critica in se stessa. Non è necessario parlare di crisi dei valori, perché i valori di per sé sono crisi. Perché i valori sono crisi? Perché il valore dipende dal soggetto che valuta. Quel soggetto che abbiamo visto essere libero, che sceglie un fine e lo valuta. Ma i soggetti sono tanti, le comunità sono tante. E quindi ogni valore, in quanto è scelto da qualcuno, non può essere di per sé un valore cogente per tutti. E quindi di per sé il valore, in quanto dipende da una valutazione, è costantemente critico. Non a caso l’origine dalla parola “valori” viene dall’economia. E cosa si fa in economia? Si scambiano i valori, come si scambiano i beni. E così nella vita collettiva, nella vita etica, nelle scelte i valori si scambiano. E quindi non c’è quella componente forte, cogente, universale. Allora in una società a bassa trasformazione i valori erano stabili perché la società era stabile. In una società ad alta mobilità i valori diventano labili perché la società è ad alta mobilità. Questa è la ragione della crisi dei valori. Cioè le comunità e i soggetti oggi sono in condizioni di mobilità e di indeterminazione tale che i valori diventano sempre più provvisori, e quindi come tali sempre più fungibili, sempre più scambiati, fino ad una sensazione di inconsistenza. Cioè non c’è più nulla di stabile. Ecco, il valore ha sostituito l’idea del bene. Perché la caratteristica del bene è, appunto, che il bene è oggettivo. Il bene è oggettivo. Quando c’è stata la soggettivazione del bene c’è stata l’emancipazione degli individui, ma c’è stata anche questa irruzione della provvisorietà nelle esistenze. La dimensione è ambigua, la dimensione è ambigua perché l’emancipazione è stata certamente un grande vantaggio per il soggetto, però se questa emancipazione ha dissolto il bene: su cosa si regge? E nello stesso tempo c’erano idee troppo rozze, troppo monovalenti, troppo univoche del bene, che asservivano. C’era una nozione di bene che produceva solo obbedienza e non scelta. Ecco allora forse era anche giusto che questa dimensione monolitica del bene si dissolvesse, perché creava soltanto obbedienza e non libertà. E quindi nella storia, in genere, siamo sempre dinanzi a processi di ambiguità, e dobbiamo stare attenti a questo. Perché se si perde una cosa se ne guadagna un’altra, se se ne guadagna un’altra si perde la prima. Noi dovremmo cercare – attraverso una operazione critica – di mantenere il buono di quello che noi abbiamo superato, e quindi nella crisi dei valori è ritornata oggi come bisogno collettivo l’istanza del bene. Nella forma negativa gli uomini ne sentono la mancanza, non sanno in che consiste, ma ne sentono la mancanza, lo desiderano. Di nuovo riemerge il bisogno del bene. Si tratta di vedere come possiamo costruire questo bene come obiettivo comune per la realizzazione delle vite individuali e delle vite collettive. Valori e scelte: siamo nella condizione di dire che noi agiamo in modo tale che le nostre scelte sono conformi a valori, oppure dobbiamo dire che i valori sono obiettivi selezionati dalle nostre scelte? Quando noi agiamo, agiamo in conformità a valori, oppure i valori sono il frutto selezionato dalle nostre scelte? Qual è il peso dominante? Quello della soggettività tendente all’arbitrarietà o quello della oggettività tendente alla dogmaticità, al comando? Questa è la condizione in cui noi ci troviamo. In ogni caso, proprio in rapporto alla tematica che sto evidenziando – senso e valore – noi ci troviamo oggi a una coesistenza di mondi. Cosa voglio dire? Quell’uomo occidentale che ho indicato, quel tipo di razionalità che ho indicato, il rapporto con i valori che ho indicato, fa parte di quella che in senso lato chiamo “la società degli individui”. Se la libertà sta nella titolarità della scelta; se il valore, per quanto discusso, è un valore selezionato dai soggetti e mediato socialmente (si mediano i valori) noi siamo in una società che è quella degli individui. Cioè in una società in cui gli individui tendono sostanzialmente a pensarsi isolatamente e ognuno cerca di perseguire la sua propria felicità e si accordano su uno spazio neutro onde evitare di darsi fastidio a vicenda. Quindi noi siamo nella società dell’individuo e, fondamentalmente, una mediazione costruita sulla indifferenza dei soggetti gli uni agli altri. Possiamo rinunciare alla centralità dell’individuo? No! se questo vuol dire libertà. Ma qual è il costo della centralità di questo individuo? E’ sostanzialmente una forma di neutralità sociale. E questa è la contraddizione tipica del nostro presente, quando si parla “più Stato”, “meno Stato”... tutte questa parole d’ordine che corrono, cosa vogliono significare? Che gli individui costruiscono ognuno per suo conto la propria felicità. E nella relazione sociale? Nella relazione sociale bisogna fare in modo che queste diverse storie, queste diverse vicende personali non ostacolino l’uno con l’altro.
C’è un progetto di vita collettivo in questo? No! Infatti noi ci troviamo oggi in una situazione di terribile atomismo sociale. Le garanzie che si chiedono sono tutte garanzie di tipo istituzionale, ma perché? Perché c’è un deficit di relazione personale. Ma se c’è un deficit di relazione personale, anche le prestazioni istituzionali tendono ad inaridirsi. Detto in soldoni: se uno fa il mestiere solo per mestiere, non ha quella umanità sufficiente per risolvere un bisogno. Se un infermiere fa l’infermiere solo per mestiere, ma non c’è una relazione umana, farà male l’infermiere. La logica della prestazione non è sufficiente per la vita della relazione, e allora l’individualismo, la società degli individui – tutto sommato – produce grandi ricchezze singolari, ma accumula grandi povertà sociali. Come direbbe Nietzsche: “Intorno a noi cresce il deserto, grandi solitudini”.
Bisogna allora necessariamente riconiugare l’individualità con la comunità. E infatti, siamo dinanzi a mondi coesistenti, in altre società - più arcaiche delle nostre, noi le chiamiamo arcaiche - vediamo che prevale invece una logica di comunità. Una logica di comunità in cui i soggetti esistono in quanto si pensano e si vivono in funzione della comunità.
Qual è il deficit di queste società? E’ forse un deficit di libertà. Un deficit di libertà, perché? Perché gli individui non si pensano nella forma dell’autonomia, però non possiamo dire di queste comunità che i soggetti si pensino in condizioni di minorità. La formula di Kant era: in condizioni di minorità. Ma chi in una comunità vive se stesso in ragione della comunità stessa, si sente in condizione di minorità oppure vive attivamente questa sua condizione dando un contributo? Nelle vecchie famiglie, nelle grandi famiglie claniche non c’era solo una relazione di soggezione e obbedienza rispetto alla comunità, ma c’era una partecipazione fisiologica alla riproduzione di quella comunità stessa perché ci si sentiva attivamente parte. Quindi se le comunità hanno effetti di costruzione sui soggetti (e li hanno avuti), hanno anche effetti di partecipazione attiva e di collaborazione, ecco. Le comunità – molte volte – costringono i soggetti dentro il loro schema e quindi non li lasciano liberi per il mondo.
Noi oggi abbiamo società a forte stampo comunitario e abbiamo una società degli individui. E se ci riflettete: la società degli individui è molto più piccola delle società strutturate secondo comunità. Questa è una cosa a cui spesso non si pensa per eccesso di eurocentrismo o di cultura dell’Occidente. Se voi guardate i numeri e le persone gli spazi islamici, orientali... la stessa Cina, che pure si sta, come dire, occidentalizzando nei modelli industriali, ha ancora un impianto forte di comunità, con caratteristi addirittura negative, cioè coercitive, violente.
Ci troviamo così dinanzi a problemi paradossali. Per farvi capire il paradosso – perché di paradosso si tratta, ma anche di difficoltà di convergenza tra le culture – pensate all’idea della pena di morte che abbiamo noi (lasciamo stare gli Stati Uniti), nella società europea c’è il rifiuto della pena di morte. Perché? Perché è fondamentale la inviolabilità del singolo, la dignità dell’individuo nella sua assoluta singolarità. E la pena di morte, in Cina, o in Paesi di quel genere dove la gente viene ammazzata mentre gli altri stanno al mercato, senza reazione. Perché? Perché lì il soggetto vive in funzione della comunità, e se ha violato la comunità ha violato se stesso, c’è una inversione della dignità. Da noi il massimo della dignità alla soggettività, e lì è indegno chi non ha rispettato la comunità. Ma loro vivono questa indegnità dell’indegno con la stessa naturalezza con cui noi viviamo la dignità del singolo.
Quando si parla di incontro e scontro tra culture, ci si trova dinanzi a questo diverso – ed ecco, uso le parole – “orizzonte di credenze”. Quindi noi siamo in un mondo in cui domina la società degli individui nella forma positiva della dignità, nella forma negativa dell’arbitrio; e società in cui domina fortemente, ancora, una logica comunitaria. Ma nella stessa cultura occidentale esistono delle correnti di pensiero, ma non solo delle correnti di pensiero, ma proprio delle vere e proprie organizzazioni sociali in cui riemerge il bisogno di comunità. A fronte di queste solitudini, di queste dispersioni, riemerge il bisogno di comunità. Prendete, per esempio, le diffusissime pratiche di volontariato.
Nella società delle solitudini emerge il volontariato, che è un segno positivo, e, nello stesso tempo, un segno negativo. Perché? Si fa il volontariato perché gli uomini non si vogliono bene spontaneamente, allora ci devono essere quelli che quasi per professione si dedicano al voler bene, mentre gli altri continuano a fare i fatti propri. Allora da questo punto di vista il volontariato è il segno di una patologia. Dall’altro lato però è il segno di una positività perché esprime un bisogno che nonostante tutto richiede di essere soddisfatto. E allora ci sono alcuni gruppi sociali che lo interpretano. Quindi vedete che nella società degli individui, e delle solitudini, emergono istanze di solidarietà. Non solo, emergono anche istanze di senso, perché le comunità, in genere, sono prodotte o permeate da credenze: è difficile trovare delle comunità che non abbiamo credenze, cioè non abbiano visioni del mondo. Le comunità sono sempre vincolate da un’idea di mondo e di esistenza. Non a caso, se voi vedete le pratiche di volontariato, in generale, per esempio, dell’Occidente, hanno la loro matrice nelle chiese. Perché nelle chiese c’è – bene o male – una istanza di solidarietà. Perché le chiese sono credenze, è un modo di sentirsi insieme. Le religioni hanno questa funzione attiva, e la caratteristica fondamentale è che ci sono valori che provengono da una credenza, ma hanno anche caratteri fortissimi di diffidenza. Infatti voi vedete che queste comunità di volontariato si ispirano al Cristianesimo, ma non sono chiesastiche, molte volte sono antigerarchiche, si parla di preti di strada. C’è una radice religiosa come idea di credenza, di bene collettivo, ma non sposa insieme alla credenza l’obbedienza. E quindi sono dinamiche singolari di bisogno comunitario, ma anche in un certo modo libertario. Si parla, appunto, spesse volte, come fa oggi la sociologia, (ma anche in tempi molto lontani già dal Seicento) si parla di cristiani senza Chiesa, credenti senza Chiesa, dove la simbolica religiosa motiva intenzioni e azioni, ma non è conforme a una logica dogmatica autoritaria. E quindi non dobbiamo dimenticare la produzione di senso che nasce dalle religioni.
La maggior parte del mondo è a struttura comunitaria, ancora, e nella società degli individui dinanzi alle derive individualiste riemerge di nuovo un bisogno di comunità. Diciamo che ci sono altre forme non di radice fondamentalmente religiosa, ma in senso lato possiamo dire di radice genericamente umanitaria o ecologica, anche questo è un sistema di credenze. Tutti i movimenti new age, per esempio, tutti i movimenti incentrati su una economia del dono contro l’economia dello scambi. Qui non abbiamo una radice specificatamente religiosa, ma abbiamo una dimensione relazionale umanitaria, all’origine delle relazioni umane non sta lo scambio, sta il dono. E quindi abbiamo movimenti e politiche costruite così, e anche forme di organizzazioni economiche improntate a questo modello, per esempio il commercio equo solidale, e altri fenomeni paraistituzionali che cercano di interrompere e di intercettare l’economia di mercato, e il puro potere finanziario, immettendo nelle relazioni umane caratteristiche qualitative, e non solo quantitative. Perché nel dono tu devi riconoscere l’altro, nello scambio puoi perfettamente farne a meno. Il dono si basa fondamentalmente sulla reciprocità e sul riconoscimento, altrimenti non c’è dono. Lo scambio può essere uno scambio tra oggetti in cui i soggetti non si guardano neanche in faccia. Allora ecco che emergono nelle nostre società, e già nelle nostre società ci sono componenti quasi fisiologiche, antidoti naturali alla dissociazione dell’atomismo sociale.
Non bisogna solo guardare le lacerazioni, ma anche i germogli, perché in fondo la vita si aggiusta da sé, è sempre stato così nella storia del mondo. Perfino Leopardi, che era un pessimista, la pensava così: la vita poi ha la possibilità, dinanzi a ciò che la rompe, di riprodurre se stessa. E allora noi dobbiamo fecondare questi germogli, intuirli e muoverci lungo quella lunghezza d’onda.
Ma questo che cosa suppone? Suppone perlomeno una capacità di analisi. Perché senza una capacità di analisi si è nella confusione e non si vede la tendenza positiva, non si ha la percezione degli effetti disgregativi che nella società solitaria, della libertà senza destino, produce la catastrofe nel mondo.
Le credenze sono appunto comunitarie, è impossibile che ci sia una credenza solamente individuale. Ci sono sistemi di credenza fortemente strutturati e ci sono sistemi di credenze bassamente strutturati. E allora, tornando all’esempio di prima, nell’Occidente, la società degli individui che vuole creare comunità, che ha bisogno di comunità, per costruire comunità ha bisogno di simboli. Le comunità si reggono su scambi simbolici, non solo su scambi materiali, il sentirsi insieme perché c’è qualcosa che accomuna. Allora noi troviamo meccanismi strani e sincretismi: abbiamo un Cristianesimo che è anche un po’ buddista, un Buddismo che è un po’ Cristianesimo, un po’ di yoga e un po’ di preghiera. Cioè ci troviamo dinanzi a situazioni in cui i grandi simboli della tradizione vengono ripresi, abbiamo soprattutto gruppi giovanili in questo senso, ma non solo giovanili, che intorno a questi simboli base, combinati insieme strutturano credenze. Ma da questa credenza entrano ed escono, e non hanno forti codici gerarchici. E quindi sostanzialmente uno diventa il papa di se stesso, ecco quindi ha questa possibilità di manipolazione dei singoli. Tranne in esiti particolari, e ci sono, ma questo lo dovrebbe studiare la psicologia sociale e la sociologia in generale, ci possono essere in questi contesti esiti settari. Cioè il guru del gruppo che diventa il padrone del gruppo. E noi vediamo in questi fenomeni di strutture - né organizzate, comunitarie - della società, fenomeni di libertà, cioè di gente che sta insieme perché non c’è un simbolo comune, ma anche di persone che poi approfittano, anche qui, della debolezza degli adepti. Perché molte volte quelli che aderiscono a queste comunità sono i soggetti deboli della società, proprio perché dispersi, meno difesi, aderiscono. E allora sul soggetto debole il guru impera. Sul soggetto robusto invece c’è scambio di interpretazione e di relazione. Quindi anche questi fenomeni: un bisogno, ma anche una povertà.
Invece fuori dallo spazio dell’Occidente abbiamo questi luoghi di grandi credenze solide, ancora non dissolte. L’Islam, è uno spazio esemplare di questo. Ma non solo l’Islam. Qui c’è una dimensione fortissima di credenze, però sono così solide come noi le immaginiamo? E qui c’è da fare un’ulteriore riflessione: la credenza si combina con una appartenenza. Tra credere e appartenere c’è una coesistenza, chi crede appartiene a qualcosa. Si dice “ha una fede”, che non è sua, appartiene, è cresciuto lì dentro.
Mentre le nostre comunità occidentali sono pullulanti degli interstizi della nostra società, quelle al di fuori dell’Occidente esistono come grande dimensione di spazio, cioè sono allocazioni forti in spazi, non sono efflorescenze dentro i vuoti. Mentre la comunità da noi è efflorescenza dentro i vuoti, dentro gli interstizi, i buchi della società, questi altri sono universi di credenze solidi e territoriali. Quindi non solo credenze come comunità, organizzazione e mentalità, ma spazi.
Che cosa succede allora? Succede che in un processo di globalizzazione è accaduto qualcosa di irreversibile e questa volta davvero di unico: il processo di globalizzazione ha compresso gli spazi, ha avvicinato gli spazi, li ha mentalmente (fisicamente non poteva) sovrapposti. Perché, il capitale finanziario, i mass media, hanno sovrapposto il mondo, cioè hanno creato contemporaneità. E a questo non sfugge nessuno. Il mondo oggi è, in senso stretto, uno spazio unico. Questo vuol dire globalizzazione. Lo è dal punto di vista della ricchezza, perché ormai i flussi finanziari sono tali che sono contemporanei. Oggi centinaia di migliaia di dollari e di euro, ecc., ecc., si spostano con un click, non c’è bisogno dello spostamento materiale della ricchezza. Un’azienda si chiude con un click se non rende più nella dislocazione mondiale. Tutto è contemporaneo, ma anche gli spazi-mondo sono contemporanei perché i media portano tutto a casa. Oggi si è nel mondo, sia pure in modo distorto, stando seduti a casa dinanzi alla televisione. Ma ci stiamo noi come ci stanno gli Islamici, come ci stanno i Cinesi, cioè gli spazi-mondo sono sovrapposti e sono contemporanei. Quindi la globalizzazione ha avvicinato le credenze, ma nel momento in cui le ha avvicinate ha fallito terribilmente la tensione. Perché lo spazio faceva distanza, per scontrarsi bisognava andarci. Oggi non è necessario andarci, perché? Perché ci si scontra subito, cioè le mentalità entrano in conflitto: due modi di essere, di agire. Una logica comunitaria e una logica individualista, come stanno insieme? Eppure stanno insieme, perché quando l’uomo occidentale – che è l’uomo della libertà, che è l’uomo della dignità dell’individuo – si trova dinanzi a quelli che muoiono e si ammazzano, qui c’è un conflitto reale di mentalità, non ci si capisce: “Come è possibile che quello faccia questo?”.
Questo elemento della contemporaneità ha prodotto una accumulazione di tensione delle società, ha indotto instabilità. E quindi anche quelle stesse credenze, quelle stesse società della credenza a strutturazione forte – di cui ho parlato prima – attraverso questa sovrapposizione esse stesse si sono problematizzate. Cioè a dire sono state destrutturate dalle immagini che ricevono e si sono poste il problema: ma è giusta la nostra vita o quella? E’ giusto tenere ancora il burka o fare la velina? Una ragazza islamica si pone questo tipo di problema, e poi giudica. Meno l’occidentale, perché? Perché siamo a una strutturazione di società a credenza labile. Ed essendoci una credenza labile la velina suscita, crea gli scrupoli, mentre gli altri, appartenendo a una credenza stabile, hanno crisi di coscienza. Questa è la differenza tra l’appartenenza a una credenza stabile e l’appartenenza a una credenza labile. Questa è la dimensione in cui noi ci troviamo: la sovrapposizione ha accumulato tensione perché gli spazi si sono sovrapposti, o meglio questa contemporaneità ha creato dinamiche conflittuali nella società.
Questo che conseguenze ha avuto? Ne ha avute fondamentalmente due, che sono speculari l’una all’altra. Una prima, diciamo in senso lato, di secolarizzazione. Una secolarizzazione che c’era stata già nell’Occidente. La modernità, appunto, a partire da Kant, è un processo costante di secolarizzazione, cioè di emancipazione dal codice religioso, dai codici morali, dai codici etici. Così, per capirci, basti pensare a quello che è successo nella generazione del ’68, che politicamente ha perso, o quantomeno non ha vinto, però i vecchi codici etici sono saltati... le relazioni sessuali, la vita famigliare. Ora, molte volte le società cambiano di più per queste ragioni che per i mutamenti del ceto politico. Tanto è vero che rispetto a quel mutamento il ceto politico è rimasto indietro, tant’è che è crollato. E’ crollato perché non ha capito quel tipo di mutamenti. Non ha capito il tipo di mutamento nel sistema dei bisogni che c’era nella società. C’è stata una secolarizzazione nella storia occidentale. Questo lo dico come un esempio flash dove si può capire cosa vuol dire rompere un codice morale.
I processi di secolarizzazione avvengono anche in quei mondi, perché con la sovrapposizione questi dicono, appunto: “ma l’Occidente è meglio di noi? noi siamo migliori?”. Sorge questo tipo di problema. Adesso la situazione è abbastanza cambiata. In quest’ultimo decennio c’è stato un momento in cui l’Occidente era attraente, perché tutto sommato si vedeva lo scintillio dell’Occidente. E non si vedeva, invece, l’aspetto drammatico dell’Occidente, irrisolto dell’Occidente. Questi da fuori immaginavano l’Occidente così come veniva presentato con le sue paillette, ma quando sono venuti qui si sono accorti che non c’erano le paillette, cioè quel tipo di società non era normale per tutti. E allora venendo qui hanno scoperto due cose insieme: che non hanno ottenuto quello per cui erano venuti, da un lato e dall’altro che alcune cose, che avevano abbandonato, erano importanti.
Le banlieue parigine possono essere lette soltanto così perché lì rinasce l’Islam: “Non siamo stati inclusi nell’Occidente e siamo venuti per questo, e abbiamo scoperto che non solo non ci ha inclusi, ma alcune cose nostre è importante riprenderle”. E’ lo stesso Islam che c’è là? No. Perché i grandi passaggi della storia non si cancellano, però una cosa è: la reinvenzione della propria identità. Ecco perché i processi di secolarizzazione producono fondamentalismo. Il fondamentalismo è l’altra faccia della secolarizzazione, perché non ci si difende mai se non ci si sente attaccati. Quindi non è che l’Islam sia per natura fondamentalista, in questo si sbaglia quando parla di conflitto di civiltà. La cultura islamica non è fondamentalista per costituzione: il fondamentalismo nasce di fronte ai fenomeni di secolarizzazione. E può diventare integralismo e poi può anche occasionare il terrorismo, ma il terrorismo ha un altro tipo di radice. Non è automatico che il terrorismo nasca dal fondamentalismo, perché c’è il trasferimento della credenza in un codice politico che fa cambiare natura. Ecco, un altro errore fondamentale è di confondere o di creare il nesso di continuità tra fondamentalismo e terrorismo. Ecco, allora a fronte della secolarizzazione: fenomeni di fondamentalismo.
Ma questo fenomeno di fondamentalismo noi non l’abbiamo registrato anche nell’Occidente? Cosa è stato Lefèvre rispetto al Concilio? Tutto sommato cosa sono stati - letti in questa chiave - questi due pontificati se non una riaffermazione identitaria, in cui Wojtyla diceva: “Non abbiate paura”, ma aveva paura? Anche se il pontificato di Giovanni Paolo II è un pontificato drammatico, ha molte facce. Certamente c’è questa faccia della Chiesa che si riafferma come unica agenzia salvifica, ma perché lo fa? E un meccanismo autocratico? No. E’ anche davvero un bisogno rispetto a una società che non ha più valori. Si trova, dunque, ad occupare uno spazio che è nato dalla disgregazione di orientamento che c’è nella società con una caratteristica opposta al volontariato, poichè ha dinamiche identitarie di grande organizzazione, di grande macchina organizzativa, su simboliche religiose: Comunione e Liberazione, che è un grande fenomeno identitario, offre valori, soprattutto ai giovani. E lo offre in modo singolare. Lo offre in un modo in cui mentre proclama l’identità è connivente con il mondo della secolarità: l’etica sessuale che praticano quelli di Comunione e Liberazione non è quella che c’è nei discorsi di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, sono molto concessivi nella pratica, molto a settori nell’identità. E questo è molto importante, perché tu puoi fare come fa il mondo sentendoti crema del mondo. Cosa di più bello? E’ questo un elemento di forza, di essere dentro/fuori, ma anche nella politica fanno lo stesso.
Questa sovrapposizione genera nella società secolarizzazione e insieme fondamentalismo, e quindi accumula terribilmente tensioni. E quindi ci troviamo in una situazione equivoca: come ne usciamo, con quale razionalità? Ecco, con quale razionalità noi possiamo muoverci dentro queste contraddizioni? La tolleranza? Sì, ma la tolleranza non basta perché produce neutralizzazione dal conflitto, ma non ne impedisce la germinazione. Integrazione? Integrazione sì, che però non sia assimilazione. Perché l’assimilazione cancella le identità e vince l’identità dominante. L’integrazione cerca di fare coesistere differenze. Ora, se ci pensate bene la storia delle religioni- di tutte le religioni – è sempre stata meno rigida di quanto non si pensi. La storia del Cristianesimo è una mutazione continua, si sono incontrati con i Greci e si sono ellenizzati; sono andati presso altre popolazioni, pensiamo alle Chiese latino-americane, anche lì hanno cambiato. Ma questo vale anche per l’Islam. Quanti Islam esistono? Tantissimi Islam, non solo gli Sciiti e i Sunniti, esiste un Islam a base cranica, esiste un Islam spirituale-mistico iranico con il sofismo. Ecco dunque la storia delle religioni storicamente è mobile, quindi queste credenze non sono poi così rigide. Certo che però essendo forti questi canoni non cambiano, ci vuole la lenta modulazione del tempo. Noi siamo in una situazione di difficoltà perché queste cose sono lente a cambiare, mentre la sovrapposizione degli spazi rende necessario che cambino presto, e quindi da qui lo scontro. Una mentalità per mutare ha bisogno di tempo, ma la coesistenza non ha tempo. E quindi ci sono fenomeni di antagonismo. Allora ci deve essere una lunga politica, una condotta politica, uno stile che intenda il più possibile vedere quanto tra queste diverse forme di vita (perché le credenze sono forme di vita) è conciliabile. Quali sono le possibili affinità che in questo diverso universo di credenze, che ormai in modo irreversibile si affacciano l’una sull’altra in modo irreversibile, quali sono gli elementi che possono permettere una qualche affinità. Per usare la formula di un teologo che si è interessato molto di questi problemi, che è Hans Küng, il cibo è un ethos mondiale.
Direi che c’è una linea che ci può permettere di immaginare una società che abbia un ethos comune, sottolineo la parola “immaginare”, non è una cosa che possiamo fare subito. Vi è, un principio, una legge che si trova in tutte le culture, in tutte le religioni e in tutte le società, stranamente c’è questa familiarità, non è il diritto naturale, è una familiarità, cioè una sorta di corrispondenza, dalle Tavole di Hammurabi alle nostre società, è nella regola aurea: Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. Se noi vediamo tutte le forme di vita sociale organizzate, bene o male questa formula ritorna. E’ come se ritornassero alcune idee fondamentali, associate direttamente a questa, primarie. Prima: Non uccidere. Seconda: Non mentire. Terza: Non rubare. Quarta: Non abusare della sessualità. Più o meno la regola aurea si scandisce nelle indicazioni delle varie forme del nuocere, perché in effetti l’uccidere, il mentire, il rubare, l’abusare sessualmente sono forme del nuocere. Allora se la regola aurea dice “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, ecco ci sono delle indicazioni primarie dell’uomo che gli uomini di tutte le culture hanno ritenuto che non si dovesse fare.
Che cosa vuol dire “non uccidere”? Questo è un divieto negativo. Ma ce ne può essere uno positivo, possiamo pensarlo positivamente, e se noi lo pensiamo positivamente lo possiamo allargare. Perché un termine negativo esclude, la versione positiva dilata. Se io invece di dire “non uccidere” trasformo questa formula in “rispetta ogni vita” allora capite bene che uccidere non vuol dire solo ammazzare, ma vuol dire non permettere di crescere bene, di svilupparsi in tutte le proprie dimensioni fisiche e mentali. “Non uccidere” messo al positivo, cioè “rispetta ogni vita” vuol dire farla crescere al massimo delle sue possibilità. A questo punto tutti insieme, nelle varie credenze, in modo questa volta laico cerchiamo di vedere cosa vuol dire “possibilità di vita”, di interrogarci non soltanto in base ai vecchi canoni, ma in base alle condizioni del mondo in cui ci troviamo. Cosa vuol dire rispettare oggi, in questo mondo, il non uccidere, cioè il far vivere? Su questo le credenze diverse possono reciprocamente problematizzarsi, e ognuno a suo modo può portare un contributo all’altro e di rettifica a sé, perché non è possibile un contributo all’altro senza una rettifica di sé, e quindi una revisione sulla base proprio di uno schema primordiale, senza cose nuove, riprendendo in un certo senso l’origine. Riprendendo l’origine ripensandola.
“Non mentire”, cosa vuol dire? Mettiamolo in positivo: agire con sincerità, non fregare un altro, non perpetrare il tradimento, avere un rapporto di lealtà, non ingannare. Questo vuol dire “non mentire”. “Non rubare” cosa vuol dire? Vuol dire non sfruttare, non appropriarsi del lavoro degli altri, distribuire in modo equo le ricchezze; questo vuol dire “non rubare”.
“Non abusare sessualmente”, che cosa vuol dire? Amarsi liberamente, non impossessarsi dell’altro, ma aprirsi all’altro in un reciproco beneficio di donazione, questo vuol dire.
Lavorando su queste strutture di base - che l’umanità in diversi posti del mondo ha sin dall’origine percepito – potremo cominciare a rivedere e scoprire che, rispetto a queste cose importanti, ci sono delle cose rituali che sono meno importanti, e anzi uno può essere un punto di vista illuminante sull’altro, nel senso di fare capire che in effetti un certo tipo di rito o di credenza in fondo nulla toglie, nulla aggiunge, anzi, in taluni casi complica, fa regredire questo generale processo dell’umanità. E allora è chiaro che qui ci vuole una reciproca comprensione, cioè entrare nelle storie degli altri.
Come dice Kant, ci vuole impegno per questo. Impegno e coraggio, la razionalità. Perché senza l’impegno e il coraggio, sapere aude. Cosa vuol dire sapere aude? Non avere frontiere nella conoscenza. Non è la concezione sapere aude in senso tecnocratico, monovalente. Sapere aude vuol dire non avere paura dell’altro, osa sempre, non porti confini. Ma non porti confini non nel senso della tua onnipotenza, non porti confini nel senso della tua accoglienza. Noi abbiamo una mentalità soggettiva e diciamo non porre confini alla nostra onnipotenza, non porre confini alla nostra accoglienza, la passività è una virtù. In una cultura attivistica noi abbiamo perso la nozione di passività. E consentitemi una lettura laica del Vangelo. Io sono abituato a fare le letture laiche del Vangelo... In fondo, l’annuncio alla Madonna qual è? Un paradosso: tu diventerai madre. Qual è la risposta? “Ecce ancilla dei”. Ecco la serva del Signore. Lasciamo stare l’orizzonte religioso, mettiamoci a servizio e nascerà Dio; l’umanità diventerà divina se sarà capace di accogliere della reciprocità la totalità dell’alterità.
E allora il futuro dell’umanità può essere liberalizzazione. Liberalizzazione non è una composizione per parti, non è la tolleranza, non è neanche l’integrazione. Liberalizzazione sarà la nuova umanità che si selezionerà da sola in ragione del semplice vivere insieme. Come sarà questa umanità? Noi non la vedremo, perché non la possiamo produrre per composizione e dedurre per astrazione: nascerà perché stando insieme ceppi diversi appariranno e il lussureggiare dell’ibrido è l’unica salvezza dell’umanità.
Salvatore Natoli
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