martedì 10 aprile 2007

La via berlusconiana alla comunicazione politica

di Antonio Lieto


Volenti o nolenti bisogna ammetterlo: l’entrata in scena di Silvio Berlusconi nell’arena politica italiana ha rivoluzionato il modo di fare e di comunicare la politica. E tale metamorfosi è stata alquanto rapida se rapportata ai ritmi lenti che caratterizzano le fasi politiche del mutamento.
Dai tempi della discesa in campo fino alle ultime elezioni, che lo hanno visto sconfitto nonostante una buona rimonta finale, è stato lui, il personaggio clou, la prima donna del teatrino politico della Seconda Repubblica italiana. E’ stato lui che ha calamitato su di sé, indistintamente, l’attenzione dei media, degli analisti politici e dell’uomo della strada. E lo ha fatto perché ha puntato su un cavallo che si è dimostrato vincente: una comunicazione che, pur se discutibile nei contenuti e nei modi in cui essi sono stati palesati (ma non entrerò nel merito di queste due tematiche), ha sempre avuto dalla sua un linguaggio semplice, chiaro, trasparente, non ermetico, radicalmente antitetico rispetto al politichese astruso e settario utilizzato dagli esponenti politici della Prima Repubblica. Berlusconi insomma, e questa è stata la vera intuizione che ha determinato la sua fortuna politica, ha sempre utilizzato un linguaggio comprensibile a tutti, scevro da tecnicismi esasperati e basato sulla componente emozionale.
Come evidenziato da numerosi studi (quello di Fedel in testa), anafora, poliptopo e metabole risultano essere le figure retoriche più utilizzate nell’ambito dell’oratoria berlusconiana. Tutte e tre sono figure della ripetizione. Ed è possibile ritrovarle toutcourt in quello che è stato il suo ultimo discorso di piazza tenuto a Roma il due dicembre scorso (in occasione della manifestazione organizzata dal centrodestra contro il governo Prodi).
In particolare: l’anafora è una tecnica basata sulla ripetizione di singole parole iniziali o di elementi più complessi:

Noi siamo oggi qui, in questa Roma, in questa piazza traboccante di entusiasmo che ha gli occhi del Paese puntati addosso, per motivi chiari: vogliamo mandare a casa un governo che distrugge la fiducia degli italiani nello Stato (…) Siamo qui perché non ci piacciono le vecchie ideologie punitive del secolo scorso (... )Siamo qui perché vogliamo opporci a una cultura che diffida degli individui liberi che non vuole una società prospera e autonoma, capace di camminare sulle proprie gambe. Siamo qui perché non ci piace una mentalità che svaluta la famiglia fondata sul matrimonio e sull’amore tra un uomo e una donna, sull’educazione dei figli alla libertà e alla responsabilità (Roma 2 dicembre 2006 discorso di Silvio Berlusconi).

Il poliptopo, invece, si basa sulla ripetizione delle forme verbali:

Sentiamo intorno a noi il calore di questa nostra comunione politica che ormai da molti anni e per molti anni in futuro, si è fatta e si farà garante della libertà di tutti. La nostra opposizione è, e sarà, severa e intelligente (Roma 2 dicembre 2006)

La metabole, infine, indica la ripetizione della stessa idea per mezzo di parole diverse:

non accettiamo il disprezzo del passato, il disprezzo delle nostre radici, il disprezzo della nostra cultura (Roma 2 dicembre 2006)

Tutte e tre sono tecniche retoriche che facilitano l’ascolto e la memorizzazione del discorso perché basate sulla continua ripetizione di concetti e/o di costrutti sintattico-narrativi. Esse, pertanto, si configurano come elementi strategici centrali della comunicazione politica berlusconiana (che punta al massimo della semplicità espressiva al fine di far emergere un discorso che appaia quanto più possibile spontaneo) .
Un altro elemento “semplificatorio” tipico dell’oratoria berlusconiana è rappresentato dall’utilizzo di costruzioni di periodo basate su strutture sintattiche semplici, con un numero minimo di subordinate incassate tra loro ed un altissimo numero di forme di coordinazione tra frasi. L’utilizzo minimale di subordinate, però, oltre all’obiettivo palese di realizzare una semplificazione discorsiva, sembra rispondere anche ad una precisa scelta strategico-comunicativa: il parlare al cuore piuttosto che alla mente, l’emozionare e non l’argomentare (le subordinate sono le forme di frase tipicamente utilizzate nelle argomentazioni di natura logico-razionale basate sui principi di consequenzialità e non contraddizione degli enunciati).
Il discorso politico di Silvio Berlusconi sembra dunque caratterizzarsi, in alcuni suoi tratti, per la non argomentatività di quanto viene asserito: i meccanismi dell’elencazione e della accumulazione (largamente utilizzati dal Cavaliere e tipici delle costruzioni coordinate) sono infatti legati alla non argomentazione dei punti citati. Poiché elencare non significa argomentare.
Ci sono, però, almeno altri sei aspetti tipici di quella che abbiamo definito “via berlusconiana alla comunicazione politica”. Essi sono (come rilevato in numerosi saggi e ricerche):
1. la simbolizzazione del nemico (nei suoi discorsi c’è sempre un nemico da combattere ben identificabile: sia esso lo spettro comunista, le cooperative rosse o la magistratura politicizzata);
2. la riduzione dicotomica della realtà (già di per se appiattita dalla logica dicotomica che governa il medium principe della comunicazione politica, la TV) in base alla quale non ci sono sfumature o vie di mezzo. Vale la logica kierkegaardiana dell’aut aut;
3. la presentazione delle proprie tesi come le uniche valide: come brillantemente evidenziato da Fedel “Berlusconi non tratta i pro e i contro delle questioni formulando argomenti su entrambi i lati di esse (…) ma articola un discorso che ingigantisce tutti gli argomenti da una parte sola sicché la sua oratoria presenta le tesi porte all’uditorio come le uniche valide”;
4. l’uso del corpo, anche nella sua dimensione simbolica, come vero e proprio elemento di comunicazione. Berlusconi è “l’uomo del lifting”. E’ colui che, con la propria corporeità (intesa in senso lato), ha cercato e cerca di incarnare la figura (improbabile) del giovane settantenne rampante, guascone, pieno di vita e, addirittura, dalla libido sessuale intatta (pensiamo alla vicenda del “rimprovero ufficiale” fatto dalla moglie Veronica Lario al Cavaliere per i suoi atteggiamenti un po’ troppo “giovanilistici”);
5. l'utilizzo strategico e continuativo di alcune parole chiave finalizzato a favorire una immediata associazione mentale tra tali parole e colui che le pronuncia (cioè Berlusconi stesso). Un esempio? Una delle keywords identificative di tutta l’oratoria berlusconiana è la parola "libertà". La menzione esplicita di questo termine in tutti (o quasi tutti) i suoi discorsi si basa, come evidenziato dalla Galli de' Paratesi , su una regola linguistica molto semplice per la quale se in un testo si enuncia in modo esplicito l'esistenza di qualcosa, ciò implica che tale elemento sia un "non dato". In altri termini: la menzione esplicita e incessante, nei suoi discorsi, delle diverse forme di libertà (di pensiero, di espressione, di culto, di impresa ecc) implicherebbe che tali diritti (peraltro tutti costituzionalmente garantiti) non siano tutelati dai suoi avversari politici. Berlusconi, quindi, così facendo, ha cercato (in parte riuscendoci) di “posizionarsi” (con una chiara strategia di marketing politico) nell'immaginario collettivo di una parte dell'opinione pubblica come garante e portatore unico di libertà.
6. l’utilizzo speculativo dei sondaggi come strumenti persuasivi da utilizzare nei confronti della pubblica opinione cercando di sfruttare, a seconda dei casi, il cosiddetto effetto “bandwagon”(che consiste nel “saltare”, da parte dell’opinione pubblica, sul “carro” del candidato o della coalizione che i sondaggi danno per vincitore ) o quello “underdog” (effetto opposto al precedente in base al quale l’opinione pubblica si schiera, a mo’ di protezione, con chi viene dato per perdente dai sondaggi causando, a volte, dei veri e propri ribaltamenti di scenario).
Un ultimo elemento, infine, che da sempre ha caratterizzato la strategia comunicativa berlusconiana, è rappresentato dalla forte preselezione dei partecipanti alle sue assemblee ed adunanze. Berlusconi, nella sostanza, ha sempre parlato ad un pubblico amico (facilitazione non da poco per un oratore) e, altro elemento di particolare rilevanza, senza contraddittorio. La sua comunicazione, quindi, si è da sempre configurata, tipicamente, sotto forma di monologo (probabilmente anche perché, nei pochi momenti in cui è stato “costretto”, da esigenze elettorali, a confrontarsi direttamente con i suoi avversari politici ha sempre mostrato una limitata capacità di argomentare in presenza di contraddittorio. Ad esempio: gli ultimi incontri televisivi con Prodi, che non è certo un maestro in quanto a comunicazione politica, sono terminati in sostanziale pareggio). La scelta del monologo, quindi, si configura come elemento strategico di fondo della comunicazione del Cavaliere. Berlusconi, infatti, sembra in grado di avere una comunicazione efficace solo quando è libero di parlare, quando il suo eloquio può esprimersi come un fiume in piena, senza la presenza di controparti. Un limite, questo, che dovrebbe far riflettere gli spin doctors del centro sinistra i quali dovrebbero cercare di pianificare contromosse comunicative che spingano il Cavaliere ad accettare realmente (e non solo per necessità o per convenienza) e con maggiore continuità il confronto dialettico di cui vive, da sempre, la politica.

Riferimenti bibliografici
E. D’Agostino Il discorso politico di Silvio Berlusconi. Analisi retorica e argomentativa
G. Fedel “Parola mia. La retorica di Silvio Berlusconi“ in “Il Mulino”, 3, 2003, pp. 463-473.
N. Galli de’ Paratesi “La lingua di Berlusconi”, in “Micromega”, 1, 2004, p. 85-98

lunedì 9 aprile 2007

Search Engine Marketing

di Antonio Domenico Casillo


Si chiama Search Engine Marketing (in italiano, marketing dei motori di ricerca), ed è oggi uno dei nuovi campi in via di massima esplorazione dai webmarketers di tutto il mondo. Una definizione abbastanza completa, per linee generali, dell’attività in questione è questa (www.positioning-search-engines.com/glossary.htm): Search Engine Marketing specifically is the function of locating, researching, submitting, and positioning a web site within the proper search engines for maximum exposure and effectiveness (Il marketing dei motori di ricerca, nello specifico, ha la funzione di individuare, ricercare, presentare e posizionare un sito web negli idonei motori di ricerca, al fine di ottenere la massima esposizione ed efficacia dello stesso).
Non volendo entrare in discorsi troppo tecnici, che probabilmente non consentirebbero ai più di farsi un’idea lucida sull’argomento, in questa sede è importante chiarire alcuni punti precisi (che in effetti coprono le basilari 5W di un qualsiasi discorso fatto di capo e coda).

What? Come detto, il SEM è un’attività di marketing specifica per il posizionamento di un sito web all’interno dei motori. E’ bene, però, non confonderlo con il SEO e il Search Engine Advertising. Il primo, ovvero Search Engine Optimization, riguarda l’attività (tecnica) di ottimizzazione di un sito affinché sia posizionato il più in alto possibile nei risultati delle ricerche degli utenti. Il Search Engine Advertising, invece, riguarda l’acquisto di spazi a pagamento su motori di ricerca e directory. Queste ultime due attività sono il risvolto operativo del SEM. Insomma, stanno a questo più o meno come le 4P stanno al marketing classico.

When? Si è cominciato a sentire il bisogno del Search Engine Marketing solo negli ultimi anni. Non poteva essere altrimenti, dal momento che si tratta di un insieme di attività ovviamente strettamente legate ad Internet. E’ bastato scoprire che gran parte della navigazione totale degli utenti del cyberspazio passa per i motori di ricerca, attraverso query (interrogazioni) a questi, perché pian piano nascessero figure specializzate nell’ottimizzare siti ai fini del posizionamento nelle pagine dei risultati (per le quali è stato coniato l’acronimo SERPs, Search Engine Results Pages). Con l’avvento dei programmi di presenza a pagamento sui motori di Google (Adwords) e Yahoo! (Overture), che sono nettamente i più utilizzati (anzi, lo è nettamente il primo), si è infine sviluppato il Search Engine Advertising (in due parole si tratta di acquistare, con un meccanismo d’asta, gli spazi a destra nelle pagine di risultati).

Why? Il perchè dell’affermarsi del SEM è già stato abbastanza chiarito sopra, quando si è parlato del when? Dati alla mano: oggi si arriva al 77% dei siti attraverso un motore di ricerca (Dick Morris Survey); oltre due terzi della popolazione italiana ha acquistato almeno una volta prodotti o servizi scegliendoli in base alle informazioni ottenuta attraverso una ricerca nei motori (Survey Nextplora/Sems); il 72,9% degli italiani online consulta spesso (il 18,7% sempre) i motori prima di un acquisto importante (Survey Nextplora/Sems); oltre il 30% degli utenti ritiene leader di settore le aziende i cui siti compaiono nelle prime risposte fornite dai motori per una loro specifica richiesta (Survey iProspect). Visibilità, brand reputation e ROI, tutti in un sol colpo. Insomma, una vera e propria chimera, per gli uomini d’azienda, sembrerebbe a portata di mano (anzi, di mouse). In realtà, se tutti vogliono ottenere la pole-position sulle SERP (sia nel posizionamento naturale che in quello a pagamento) ne deriva, da un lato, una ipercompetizione di tecnici (copywriter e SEO) di diverse agenzie che si battono a suon di aggiornamenti di siti e tentativi di accrescere con relazioni link-based la popolarità del sito (non mi soffermo su questi aspetti un pò più tecnici); dall’altro, il fatto che si aprono aste impossibili sulle parole chiave degli annunci a pagamento (anche qui non mi soffermo troppo, ma chi vuol saperne di più consulti il sito http://www.google.com/intl/it/adwords/learningcenter/index.html) con il risultato di tagliar fuori spesso la concorrenza delle aziende con minori disponibilità economiche.

Where + who? Il dove sia nato questo nuovo genere di internet marketing mi sembra scontato. Ovviamente è negli States che Internet ha ottenuto inizialmente il più vasto consenso, è lì che si sono stretti i più grandi affari (in positivo come in negativo) dell’economia virtuale ed è proprio Oltreoceano che il SEM ha visto le sue prime affermazioni e che oggi osserva già una certa saturazione del mercato dei motori (per alcune parole chiave le offerte raggiungono cifre che non hanno paragoni con quelle dei siti italiani). Who? Chi abbia creato il SEM è una bella domanda. Probabilmente si è autocreato come risposta alle esigenze e alle potenzialità di cui sopra discusso, ma sarebbe difficile individuare l’uomo, o il gruppo di persone, che ha mosso la prima pietra. Pur senza avere un Adamo (o una Eva) del caso, ci sono un paio di who belli e pronti per ogni esigenza di Search Marketing. Sono la SEMPO (Search Engine Marketing Professional Organization, ente no-profit) e la SMA-NA (Search Marketing Association of North America) e raggruppano membri provenienti da tutte li migliori realtà che vivono nell’universo del SEM. Studiano i limiti, i punti di forza del SEM e i modi per evitare frodi tramite l’utilizzo dei motori. Ecco i siti, all’interno dei quali è possibile avere informazioni di ogni tipo: http://www.sempo.org/home , http://www.sma-na.org/ . Oppure, facciamo una prova. Scrivete SEMPO o SMA-NA nella barra di ricerca di un motore (Google o Yahoo!, ma anche un altro qualsiasi). In che posizione nella SERP troverete i siti in questione?

venerdì 6 aprile 2007

Eutimia

di Alessio Strazzullo

“Eravamo a scuola insieme e sai benissimo come funziona...si studia poco, poi ci sono degli argomenti, quei pochi argomenti, che si studiano bene. Il concetto di Eutimia è uno di quelli che abbiamo studiato bene, la buona disposizione di spirito, quasi ascetica.”

Un simpatico aneddoto per capire come avviene la scelta del nome di un gruppo, a volte per scherzo, a volte per caso. “Prima di arrivare a prendere un indirizzo preciso, realizzando canzoni inedite, abbiamo lavorato molto su alcune cover. Quando abbiamo deciso di lavorare ad un progetto nuovo, con pezzi originali ed inediti, abbiamo dovuto scegliere un nuovo nome...questo ci sembrava il più adatto.”

Parlo con Lelio Morra e Marco Gioia, rispettivamente Voce e Basso degli Eutimia. Anche gli Eutimia, come tanti altri gruppi, soffrono nel loro essere sommersi. I problemi, sono sempre gli stessi.
“Alle volte per suonare nei locali bisogna davvero scendere troppo a compromessi. E' brutto vedere che si riesce ad assicurarsi la serata ma che poi non c'è il minimo di riconoscenza. I problemi purtroppo restano sempre quelli, tantissimi gruppi, anche validi, ma pochi posti dove riunirsi. A Roma c'è il circolo degli artisti...qui cosa abbiamo?” Dice Lelio.
Marco aggiunge: “A volte si suona attraverso conoscenze, non per aver dimostrato vero valore.”

Nella lentezza con cui si modificano e migliorano le strutture nella nostra città, i gruppi si spengono lentamente o, magari, si uniscono per provare a venirne fuori.
“La scena a Napoli non è dettata da gusti simili o stessi argomenti da trattare...Siamo legati perché siamo tutti di Napoli, abbiamo le stesse esigenze e ci scontriamo con gli stessi limiti.”

E riguardo a loro? Chi sono nello specifico questi Eutimia?
Ciò che li ha spinti alla musica è stato l'ascolto di Fabrizio De Andrè, l'importanza che dava ai testi, alla musica “d'atmosfera”.
“Cerchiamo di creare canzoni che abbiano, per quanto riguarda il testo, una base cantautoriale ma che siano inserite in un contesto musicale più moderno, più semplice, sullo stile del pop inglese. Canzoni quindi, che possono essere considerate belle anche solo per la musica...”

Un'idea di canzone veramente molto equilibrata, indiscutibilmente difficile da realizzare, ma che agli Eutimia viene particolarmente bene.
“Non appena abbiamo deciso di scrivere i nostri pezzi ci sono successe cose incredibili. Con Amaranta abbiamo vinto il premio De Andrè, poi è arrivata Musicultura. Tutto all'improvviso, dopo due mesi che lavoravamo ai nostri pezzi. Dopo il De Andrè abbiamo preso in fitto una casa a Berlino...lì vedendo più albe che tramonti abbiamo scritto gli altri pezzi.”

Una bella storia questa degli Eutimia, amici da sempre, sviluppano insieme le loro scelte musicali e strumentali. Tutto ciò ovviamente porta a compiere quel difficile obiettivo dell'equilibrio dei pezzi, tra testi d'autore e Musica moderna. Ma quanto è difficile farsi vedere, e quanto è difficile poter sperare ancora in un futuro concreto per chi fa parte di una band emergente a Napoli.
“Suonare risulta sempre più difficile. Anche le associazioni che potrebbero lavorare molto su questo aspetto, solitamente restano chiuse, limitano le proprie scelte all'ambito politico cui si rivolgono. Da parte mia ho sempre pensato che il miglioramento di alcune zone, come Bagnoli per intenderci, potesse essere una soluzione. Ma e' tutto troppo lento...quanti anni ci vorranno ancora?”

Io da parte mia non posso far altro che attendere...con una buona predisposizione d'animo, voi intanto andate al loro indirizzo: www.myspace.com/eutimia

giovedì 5 aprile 2007

Attenti ai pac...kaging

di Antonio Lieto


Un antico detto popolare dice “l’abito non fa il monaco”. Altri tempi, verrebbe da dire. Nella società dell’immagine l’abito fa il monaco. Eccome. In una società in cui tutti sembriamo sbattuti da una parte all’altra come le palline di un flipper impazzito sembra non esserci più il tempo (e, forse, la capacità) di guardare al di là della “buccia”. Di fare delle scelte che vadano al di là dell’apparenza immediata, superficiale. Insomma al di là dell’abito.

I primi ad essersene accorti sono stati i pubblicitari. Che subito hanno adeguato il loro modo di comunicare al nuovo trend sociale passando da una pubblicità “spiegata” ad una pubblicità d’impatto.
All’epoca della pubblicità “spiegata” la parte centrale del messaggio era costituita dal body copy (cioè da quella parte del messaggio in cui si danno informazioni tecniche relative ad un dato marchio o prodotto). Tutto ruotava intorno all’elemento informativo. Era importante “spiegare” appunto.
Nell’era della pubblicità d’impatto, invece, quella in cui viviamo oggi, a farla da padrone è il visual ossia l’immagine, l’elemento grafico-estetico di un prodotto o di un marchio.
Provate a sfogliare qualche rivista o a fare un po’ di zapping. Vedrete come le pubblicità non spiegano più niente. Si punta sull’impatto immediato. Sulla potenza evocativa ed emotiva dell’immagine che, come si dice, “parla da sé”. Non ha bisogno di essere spiegata.

Nella società della advertising ad impatto, i pubblicitari, pensandone una più del diavolo (che, a quanto pare, veste Prada, ascolta i Queen e magari beve anche Martini), hanno introdotto nel loro armamentario comunicativo un nuovo elemento di cui potersi avvalere per sedurre i consumatori: il “confezionamento” del prodotto, il packaging. Anch’esso, infatti, può veicolare emozioni, sens-azioni.
Un esempio? Pensiamo alla confezione di un prodotto qualsiasi che sia: gradevole al tatto, bella da vedere e profumata. Ed ecco veicolato alla perfezione, tramite packaging, un messaggio seduttivo e polisensoriale.
Il fatto è che, spesso, scartata la confezione, il valore reale del prodotto non sembra essere all’altezza delle nostre aspettative. Insomma ci accorgiamo che “ci hanno fatto il pac...kaging”. Ma con chi prendersela se non con noi stessi e con le nostre bislacche modalità di scelta?

Non è solo la realtà commerciale, però, ad essersi accorta di questo trend sociale legato all’importanza attribuita, in fase di scelta, ad indici periferici, secondari, non attinenti direttamente al contenuto. Da qualche tempo a questa parte anche i politici, o meglio gli staff di cui si servono, se ne sono accorti. E anch’essi, sempre più, basano la loro comunicazione sul “packaging” (se consideriamo tale termine non nella sua accezione specifica ma in quella più generale di “elemento superficiale”, di “buccia”, di “abito” insomma).

Sempre più i vari guru della comunicazione, che fanno da consulenti per i leaders politici del globo, puntano sull’importanza dell’immagine dei leaders (sia quella fisica vera e propria sia quella relativa alla costruzione della loro reputazione pubblica). Sempre di più il contenitore diventa più importante del contenuto. Il modo in cui si dicono le cose diventa più importante delle cose dette. Il packaging diventa più importante del messaggio veicolato. Per cui, in questa logica, si punta a far votare questo o quel leader non tanto per i suoi reali progetti politici ma, piuttosto, per il modo in cui li “vende”, li propone (le battute umoristiche sono uno degli strumenti più gettonati nella nuova politica-spettacolo: sembra che tutti vogliano dire barzellette, specie in periodo elettorale). A risentirne, ovviamente, è il livello del linguaggio politico, il livello di democrazia di un Paese e il livello di produzione della bile nel fegato delle persone che ascoltano con attenzione quanto effettivamente viene detto.

La comunicazione politica odierna, insomma, sembra ricorrere a piene mani agli strumenti tipici dell’advertising commerciale. Ma lo fa con rischi assai diversi. Il problema di fondo, infatti, è dato proprio dalle peculiarità dei due ambiti in questione. Cosa vogliamo dire? Semplicemente che se “ci fanno il pac…kaging” relativamente ad un prodotto commerciale la prossima volta non lo ricompreremo e questa esperienza negativa, comunque, avrà solo effetti limitati alla nostra persona. In ambito politico, invece, una scelta di voto fatta sulla base del “packaging”, piuttosto che sulle reali proposte politiche del leader di turno, può essere dannosa per un’intera comunità e può protrarre i suoi effetti per diversi anni.
Insomma il messaggio mi sembra chiaro: Attenti ai pac…kaging.

lunedì 2 aprile 2007

La fotografia locale tra memoria e ricerca

di Bianca Arcangeli



A conclusione di un lavoro di ricerca che ha visto la schedatura e l’immissione nella banca dati digitale del Dipartimento di Sociologia e scienza della politica La memoria dei luoghi (tra poco consultabile anche in rete) dell’archivio dei fotografi Nuzzo di Vallo della Lucania, si è tenuto presso il Dipartimento di sociologia e scienza della politica dell’università di Salerno un incontro dal titolo: Una famiglia di fotografi del Cilento: i Nuzzo (Fisciano, 7 marzo 2007).
Pannelli, immagini, oggetti, parole, hanno restituito l’esperienza di due generazioni di fotografi ambulanti in un’area del Cilento ed il trasformarsi nel tempo dell’attività come dei suoi soggetti.
All’incontro, organizzato dal Dipartimento di sociologia e scienza della politica e dal Dipartimento di scienze della comunicazione e curato da Bianca Arcangeli, hanno partecipato tra gli altri: Vittorio Dini, Gino Frezza, Paola Capone, Vincenzo Esposito, Rosaria Gaudio, Furio Memoli, Francesco Nuzzo.
Quello che segue è il testo della relazione introduttiva di Bianca Arcangeli.


La fotografia locale tra memoria e ricerca.
Vecchi problemi e nuove opportunità


1. Una Fase Conclusa
L’avvento della rivoluzione digitale ha segnato di recente una cesura importante nella storia della fotografia e della produzione dell’immagine più in generale: una cesura tecnologica, indubbiamente, ma anche nei modi sociali di uso dell’immagine. Le conseguenze sono ben evidenti a tutti. Come già avvenuto nel caso di altre rivoluzioni tecnologiche, nella fotografia ed altrove, il prodursi di queste cesure, la consapevolezza di un percorso in parte concluso ci aiutano a guardare più liberamente e con maggiore distacco al passato, a riflettere su di una fase della storia dell’immagine che sembra ora avere non solo un inizio ben preciso, ma anche, per molti versi, un suo termine.
Ripercorrendo questa storia che si conclude sotto i nostri occhi, (sfogliando, ad esempio, qualcuno dei tanti volumi recentemente dedicati alla produzione fotografica italiana) guardando, in particolare, a quella fase che, dopo un’intensa sperimentazione vede un uso diffuso ed allargato della tecnica fotografica e che si estende per un secolo, dalla fine dell’Ottocento alla fine del Novecento, si è colpiti dalla sua varietà e complessità: dall’intrecciarsi, al suo interno, di molteplici livelli di produzione, dalla varietà di figure produttive di modi di circolazione e diffusione della produzione, di usi sociali dell’immagine.

2. Produzione nazionale e produzione locale.
Nell’epoca dell’immagine analogica il lavoro di importanti fotografi e studi fotografici, operanti a livello nazionale, in grandi centri urbani, talvolta in stretto collegamento con avanguardie internazionali, occupa uno spazio di grande rilievo: per gli alti livelli di qualità raggiunti, per il ruolo di modello di stile, di tecnica, esercitato nei confronti di altri operatori fotografici e, quindi, più in generale, per la messa a punto delle rappresentazioni visuali collettive. Sono infatti le immagini prodotte a questo livello quelle che, vuoi per la loro qualità,vuoi anche per le logiche di diffusione del prodotto, (perché diffuse e riprese nelle maggiori pubblicazioni nazionali, monografiche e periodiche) stabiliranno quei clichè che a lungo hanno rappresentato epoche, eventi, persone, territori. Per il nostro Mezzogiorno, ad esempio, e per gli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento è ben noto il ruolo giocato da alcuni produttori di fotografie attivi a livello nazionale, da Alinari, a Brogi, ad Anderson e Chauffourier, nello stabilire modi di vedere, stereotipi ed una rappresentazione visuale di lunga durata.
Al tempo stesso, tuttavia, il veloce diffondersi della tecnica fotografica sul territorio, con un movimento che, a partire da alcuni centri maggiori raggiunge progressivamente aree più lontane ed isolate, genera nuove geografie e gerarchie professionali. Con la diffusione nello spazio della tecnica fotografica, quel tempo unico che è quello dell’invenzione della fotografia e delle sue trasformazioni tecnologiche, un tempo che detta ovunque regole vincolanti, si frammenta in più specifiche cronologie e storie.
Queste ultime si sviluppano in relazione alle caratteristiche delle singole aree, ai modi di diffusione dell’invenzione, alle diverse figure che di questa tecnica si fanno in esse portatori, interpreti ed attuatori, agli usi sociali dell’immagine. Queste storie particolari hanno prodotto un’ abbondante e varia produzione che è definita spesso, in opposizione alla precedente, locale. Tale termine è per certi versi ingannevole: questa produzione resta infatti, spesso in vario contatto con quella nazionale, come testimoniano, ad esempio molte delle biografie dei fotografi di questo tipo; e tuttavia coglie anche i tratti distintivi del fenomeno: è una produzione “locale” perché opera di persone del luogo, siano essi professionisti, amatori e dilettanti, per i suoi contenuti, perché destinata in larga parte al consumo locale, perché diffusa infine prevalentemente attraverso circuiti locali.
Ora proprio questa produzione “locale”, lungi dal poter essere considerata pura ripetizione, eco, magari di qualità inferiore, di quella nazionale, appare di rilevante interesse per le scienze sociali, per storia, sociologia ed antropologia in particolare. Lello Mazzacane, ad esempio, ha sottolineato come proprio “in questa attività diffusa sul territorio ma scarsamente analizzata, se non del tutto ignorata, risieda la vera storia della fotografia meridionale, ma soprattutto siano rinvenibili le tracce più significative del suo uso e consumo specifico presso le diverse classi sociali”. (Cfr.. L.M, Il inedito dei fotografi di famiglia a Napoli, in L’Italia del Novecento, le fotografie e la storia, Gli album di famiglia, a cura di G.De Luna G.D’Autilia e L.Criscenti, Einaudi, Torino, 2006, p.226).
Queste affermazioni poggiano su di un ampio lavoro di ricerca: il Centro di ricerca audiovisuale della Federico II di Napoli, guidato dallo stesso Mazzacane ha portato avanti, a partire dal 1987 un’opera sistematica di censimento e ricognizione degli studi fotografici operanti nell’area meridionale dalla seconda metà dell’Ottocento in poi. Ed a questo lavoro si occorre aggiungere quello di altri studiosi, da tempo impegnati nella ricostruzione del lavoro di singoli fotografi e studi del Mezzogiorno o anche nell’analisi di alcuni generi fotografici, come ad esempio ad esempio quello delle fotografie di famiglia, (un lavoro di cui si trova abbondante traccia nell’ultimo volume della serie Einaudi Le fotografie e la storia, dedicato agli Album di famiglia).
E’ appunto in questo sforzo scientifico più generale, al quale contribuiscono ricercatori di differenti aree disciplinari, che si inserisce anche il lavoro di ricerca svolto sul fondo Nuzzo, che racchiude le immagini scattate da Umberto (1903-1980 ) dai figli Aniello, Filippo e Francesco, quest’ultimo oggi proprietario di uno studio fotografico a Vallo della Lucania. Parte dei materiali, contenuti in buste e scatole alcune delle quali andate perdute, sono stati faticosamente riordinati ed identificati con l’aiuto del fotografo stesso e poi immessi nella banca dati digitale creata presso il Dipartimento di Sociologia e dedicata alla memoria dei luoghi, una banca nella quale confluiscono i prodotti di ricerche visuali realizzate sul territorio di docenti e studenti. Essa consente di salvare, sia pure solo in formato digitale, un vasto patrimonio di conoscenze e di immagini, lo rende visibile agli studiosi e accessibile anche, grazie alla rete ad un pubblico più vasto ed agli stessi abitanti dei luoghi di provenienza dell’immagine.

3. Il fotografo ambulante ed il suo lavoro.
Nell’ambito della fotografia locale, e di quella in particolare dei piccoli paesi delle aree di collina e montagna o interne, un posto di rilievo spetta nel Novecento, anche dopo gli anni ’50, all’opera del fotografo ambulante, a volte anche possessore di uno studio proprio. E’ questo appunto il caso della famiglia Nuzzo, di Umberto e dei suoi figli, dei quali oggi parleremo, e dei tanti fotografi del Cilento che essi rappresentano e che speriamo di raggiungere con il nostro lavoro. Cosa sappiamo dunque della loro opera? E soprattutto, e scendendo più in dettaglio, perché questa produzione è interessante per lo scienziato sociale ma anche per il territorio e le sue diverse componenti?
Senza fare un’ esposizione sistematica dei risultati delle ricerche più e meno recenti basterà qui far riferimento ad alcuni fondi faticosamente salvati grazie ad un’attenzione generosa di comuni, province, regioni ed enti vari: i risultati di questo lavoro, di grande interesse, danno qualche risposta alle nostre domande ma mostrano anche con chiarezza alcuni dei problemi con i quali bisogna confrontarsi.
Pensando dunque ai fotografi ambulanti, ed ad alcune iniziative recenti, ne ricorderò giusto tre. La prima, è la mostra dedicata a Cuneo, nel 2003, all’opera di Leonilda Prato (1875-1958) (Mostra a cura dell’Istituto storico della Resistenza e della Società contemporanea in provincia di Cuneo, Museo Civico, Cuneo 19 nov.7 dicembre 2003, catalogo a cura di Alessandra Demichelis, Cuneo, 2003). Figlia di una tessitrice e di un calzolaio, donna della montagna tra Piemonte e Liguria, Leonilda apprese per caso, da un fotografo austriaco incontrato in Svizzera nel suo peregrinare al seguito del marito, musicista ambulante, l’arte della fotografia; e fu fotografa ambulante al seguito del marito, poi, ritornata in paese, fotografa delle sue genti. Di lei la tradizione orale conserva ancora qualche immagine, da anziana: “ I capelli erano bianchi e soffici, e lei li portava raccolti in una crocchia. Sistemava la macchina agli angoli del paese e scattava le fotografie, come aveva fatto tutta la vita, ma non se li faceva pagare, i ritratti: la gente di campagna le portava una formaggetta, cose così. Qualche volta la sera, raggiungeva le famiglie riunite per le veglie e cantava, accompagnandosi con la chitarra. Aveva una bella voce, Leonilda…. “(ivi p. 1). Del suo lavoro ci restano circa 3000 lastre, tutte del periodo trascorso in paese, tutte prive di riferimenti, annotazioni, didascalie.
La seconda è la recentissima mostra dedicata a Bologna all’opera di Enrico Pasquali, (1923-2002), muratore, stradino, pompiere e aiuto tipografo ma anche dal 1947 fotografo ambulante, e poi dal 1950 in società con Ermenegildo Zuppiroli, proprietario di uno studio fotografico a Medicina. Pasquali con le sue numerosissime immagini, ora depositate presso l’Archivio della Cineteca di Bologna che ha curato la mostra (Bologna, 21 ottobre 2006/ 29 gennaio 2007: www.cinetecadibologna.it ) ci restituisce la vita delle popolazioni rurali dell’appennino emiliano degli anni cinquanta e sessanta,
La terza iniziativa viene dal Mezzogiorno ed illustra l’archivio di Prospero di Nubila (1902-1989) fotografo di Francavilla sul Sinni, Trecento stampe e trecento sessantatrè lastre di vario formato ci raccontano nel volume curato da M.R. M.Romaniello.(Lo sguardo ritrovato. Condizione contadina e vita comunitaria nelle fotografie di Prospero di Nubila,, a cura di Maria Rosaria Romaniello, Matera, Antonio Capuano Editrice 2000) il suo mestiere di fotografo, ambulante e di studio, e la vita di una comunità.
Questi tre esempi, tutti alquanto recenti, attestano l’ interesse crescente degli studiosi e del pubblico per questa figura, ma consentono anche qualche riflessione più generale. Al di là della diversità dei loro percorsi biografici, dei tempi, dei luoghi di riferimento, ciò che accomuna le biografie ed il lavoro di questi tre fotografi è il rapporto che si stabilisce tra fotografo e la realtà ripresa. Il fotografo, infatti, in questi casi, è parte integrante della comunità fotografata, è inserito stabilmente in essa e con essa intrattiene stretti rapporti. Il suo sguardo è interno alla comunità stessa, uno sguardo complice è stato detto, lo sguardo di un osservatore partecipante o di un partecipante osservatore. Muovendo dall’interno e spesso dal basso, in una prospettiva simile a quella della gente comune alla quale appartiene, l’obiettivo del fotografo ripropone e rappresenta i luoghi simbolo, gli eventi importanti per la vita locale ed i valori in generale della comunità. Tutto questo rende la fotografia locale significativamente diversa da quella di eventuali fotografi importanti, esterni alla comunità e ne fa una fonte privilegiata per lo studio delle rappresentazioni e delle identità collettive. Né solo questi sono i motivi di interesse. La fotografia “locale” ha infatti anche un’importante valore documentario: ad essa dobbiamo molto spesso, in assenza di improbabili sguardi esterni, le uniche immagini disponibili di luoghi ormai trasformati, di eventi un tempo centrali per l’economia locale, come fiere e feste, di riti processionali, di lavori stradali che hanno cambiato la vita delle popolazioni, di mestieri scomparsi. Penso ad esempio a tante delle foto dei Nuzzo che documentano processioni cilentane, ma anche ad altre fotografie contenute nella banca dati, a quelle ad esempio provenienti dal Fondo Dini, che documentano il lavoro degli ingegneri Pasquale e Giuseppe Pistilli per la costruzione di strade del Cilento, penso, per i mestieri scomparsi, alle immagini della miniera di ittiolo di Giffoni Valle Piana, da tempo chiusa, a quelle delle fabbriche di neve di Monteforte etc.
Questa memoria fotografica locale, infine, svolge spesso un ruolo centrale nel salvataggio e nel recupero di altre memorie visuali anteriori.
Del lavoro di tanti piccoli fotografi che hanno lavorato nel Mezzogiorno si è persa oggi in molti casi financo la memoria. Poche immagini, qualche nome sopravvivono talvolta, solo grazie alla memoria orale ed alle collezioni familiari oppure attraverso il lavoro di altri fotografi dell’area, che quell’opera hanno riprodotto, non sempre tuttavia conservando indicazioni precise sull’attività originaria. Quest’opera di riproduzione, di perpetuazione e tradizione di memorie più antiche, è appunto un altro elemento che rende di grande valore l’opera del fotografo locale. A Giffoni V.P. ad esempio, uno degli attuali fotografi, Costantino Cianciulli, ha integrato nel proprio archivio, in originale o in riproduzione, numerose immagini pazientemente ritrovate, talvolta in abitazioni abbandonate, tra le quali quelle del fotografo D’Elia dei primi del Novecento. E questa attività paziente di riproduzione, condotta ora su richiesta del cliente ora per proprio interesse, è ben presente, sia pure in modo meno sistematico, nello stesso fondo Nuzzo, nel quale si trova ad esempio la riproduzione di una foto di Giuseppe Fusco del 1888, uno dei primi fotografi di Vallo, e caratterizza del resto l’attività di quasi tutti i fotografi soprattutto operanti in centri medi e piccoli .

4. La memoria minacciata.
Il fotografo locale gioca dunque un ruolo di tutto rilievo, complesso ed a vari livelli nella formazione e nella trasmissione della memoria collettiva. Ed è tuttavia proprio a questo livello della produzione fotografica che la trasmissione della memoria appare più seriamente minacciata. Da noi individui, comuni, soggetti diversi sono spesso lasciati soli a tutelare questo patrimonio in un’opera per la quale non posseggono le indispensabili conoscenze e risorse. Sono poche, infatti, nel mezzogiorno, bisogna dirlo, le strutture di raccolta e preservazione di questi materiali e manca, tra quelle esistenti, un lavoro di coordinamento e soprattutto uno sforzo di raccolta sul territorio, o almeno di guida e sostegno alle iniziative dello stesso. Di fronte alla quantità dei materiali, alla difficoltà di una loro catalogazione e preservazione gli eredi di tanti piccoli fondi si arrendono ed abbandonano materiali che sembrano inutili ed inutilizzabili e che tali divengono rapidamente.
La memoria fotografica locale, quella dei piccoli fotografi di paese in particolare della quale si è parlato, ci giunge dunque, spesso, deteriorata nei suoi fragili supporti, mutilata, e priva di parti essenziali, di quel riferimento al contesto che è prezioso per il suo utilizzo, ancor più spesso non ci giunge affatto. La fragilità dovuta alla natura stessa dei suoi supporti che richiedono metodi scientifici di protezione e strutture di non facile allestimento genera perdite regolari e continue. E quella che ci giunge, abbiamo difficoltà a tramandarla.
Si perde così, del tutto o in parte, un patrimonio prezioso per la ricerca e per la memoria e l’ identità collettiva. A questo bisogna reagire, con un lavoro collettivo che tenga insieme ricerca, amministrazioni, soggetti privati e pubblici e che cerchi, costruisca e richieda soluzioni valide per la tutela di questi beni. In attesa che questo si verifichi, in attesa di poter preservare davvero, anche nell’originale, questi materiali, la proposta di banche dati digitali relative a singole aree, a quella cilentana ad esempio, sembra almeno consentire un salvataggio parziale della nostra memoria locale a forte rischio di depauperamento.

Giovani francesi per Ségolène Royal

di Giampiero Assumma


domenica 1 aprile 2007

La scienza come pratica di libertà

di Giulio Giorello

“REGINA:
E questa gliel’ha mandata Amleto?
POLONIO:
Buona signora , un po’ di pazienza. Sarò fedele (legge)
Dubita che le stelle siano fuoco.
Dubita che si muova il sole.
Dubita che la verità sia menzognera,
Ma non dubitare del mio amore-
O cara Ofelia, non sono capace di fare versi, non ho l’arte di scandire i miei lamenti, ma che io ti ami più di ogni altra cosa, più di ogni altra, credilo. Addio.
Il tuo per sempre, signora amatissima,
Finché questa macchina resta sua,

Amleto
Questa lettera mia figlia me l’ha mostrata per obbedienza”…(Amleto, Atto II, Scena II)


Ma perché Amleto è “pazzo”? Perché osa mettere in discussione due verità “assolute”, almeno per la maggior parte dei contemporanei (di Shakespeare, non della figura storica, il principe danese medioevale, da cui peraltro avrebbe tratto spunto il grande poeta inglese): che appunto il Sole si muova intorno alla Terra e che le stelle non siano che piccoli punti luminosi sospesi alla volta celeste. E l’Inghilterra di Shakespeare è anche quella in cui Giordano Bruno era venuto a insegnare non solo che il centro del moto del Sistema era il Sole e non più la Terra, ma anche – andando oltre Copernico – che ogni stella può essere centro di un sistema di “terre e lune”, nel grande spazio “immenso”. Di Amleto (sempre in quella Scena II dell’Atto II) Polonio dice che “c’è del metodo” in quella sua follia. Questo “metodo”, nel caso dell’impresa scientifica, non è altro che l’esercizio sistematico della critica. Come ebbe a dire, al tempo del suo soggiorno presso i luterani, ancora Bruno: “Trattando di filosofia, tutte le cose saranno per me ugualmente dubbie: non solo le affermazioni più ardue e lontane dal senso comune, ma anche quelle che sembrano sin troppo certe ed evidenti, dovunque e comunque saranno oggetto di controversia”.

Questo libero proliferare della controversia è alla base di ogni grande svolta nella ricerca scientifica. So bene che la filosofia naturale di cui parla Bruno nei suoi dialoghi in lingua italiana, come in alcune delle sua opere in latino, non coincide con la scienza, come noi la conosciamo! E’ difficile pensare a Bruno come a un ricercatore dei nostri tempi, che coordina una serie di indagini sperimentali, che magari dirige un laboratorio, che pubblica i propri risultati nelle riviste specialistiche, ecc.; ma basta spostarsi dalla fine del Cinquecento ai primi decenni del Seicento per constatare che una figura del genere c’è già. In Italia si chiama Galileo Galilei. E quando Galileo pubblica (1632) il suo grande manifesto per il copernicanesimo è da tempo lo scopritore affermato che ha ripreso con vigore e successo l’idea che vi siano “montagne sulla Luna”, ha individuato le “Lune Medicee” (cioè, i satelliti di Giove), ha dichiarato la natura stellare della Via Lattea, ha trovato le fasi di Venere, ha studiato le macchie solari, ecc. E’ già uno scienziato nel nostro senso del termine – ovvero, qualcuno che unisce osservazione e teoria, ritenendo che le proprie congetture debbano essere corroborate dall’esperienza; che non si limita all’esperienza dei puri sensi, ma sfrutta anche quella potenziata dai congegni della tecnica; che non esita a ricorrere alla matematica per poter leggere nel Grande Libro del Mondo; e che ritiene che i competenti in materia abbiano tutto il diritto di intervenire con controlli severi per accertare se quello che si è immaginato sia più o meno corretto, in modo che non resti pura speculazione. In una celebre pagina del Dialogo sopra i due Massimi Sistemi del Mondo si legge: “SIMPLICIO: Questo modo di filosofare tende alla sovversione di tutta la filosofia naturale, e al disorientare e mettere in conquasso il Cielo e la Terra e tutto l’Universo […]. SALVIATI: Non vi pigliate già pensiero del Cielo né della Terra, né temiate la lor sovversione, come né anco della filosofia […]. La filosofia medesima non può se non ricever benefizio dalle nostre dispute, perché se i nostri pensieri saranno veri, nuovi acquisti si saranno fatti; se falsi, col ributtargli, maggiormente verranno confermate le prime dottrine”.

A buon diritto, nella Crestomazia italiana. La prosa (0000), Giacomo Leopardi indicava in Galileo il modello della prosa civile per gli italiani. Le parole del “maligno pisano”, come era chiamato (non senza ironia) Galileo dall’ingegnere Carlo Emilio Gadda, suonano come una Dichiarazione di Indipendenza scientifica, che precede di più di un secolo quella politica (a opera dei “risoluti ribelli” nordamericani del 1776). Non entro qui nella delicata questione della “lettura” di Bruno da parte di Galileo – per cui rimando alla magistrale indagine svolta dal grande Giovanni Aquilecchia. Mi limito a ricordare come per Galileo la scienza sia ormai sapere pubblico e controllabile, e la critica, magari spinta fino al limite dello “scisma” entro la stessa comunità scientifica, rappresenti il lievito per la crescita della conoscenza.

Come ha più volte ricordato un altro grande nostro maestro, Paolo Rossi, questa stessa capacità di usare in modo euristico la “disputa” è poi passata dalla sperimentazione scientifica a quella politica, in quella sorta di grande esperimento che è stata l’instaurazione della democrazia dei Moderni. E’ stato proprio un filosofo americano a sviscerare la portata di quella Dichiarazione in campo scientifico, mostrando – sul finire dell’Ottocento – come una piena indipendenza si possa raggiungere solo entro una concezione fallibilistica del sapere. Per Charles Sanders Peirce, logico, matematico e filosofo, vi erano tre cose “che non possiamo mai sperare di raggiungere con il ragionamento: la certezza assoluta, l’esattezza assoluta, l’universalità assoluta”. Il fallibilismo non è una teoria, bensì un atteggiamento, uno stile di vita, un’opzione filosofica che Peirce non vedeva sovrastare la pratica della ricerca, ma annidarsi nelle pieghe della scienza. Un sapere assoluto, sciolto cioè dal vincolo della critica, avrebbe a suo dire precluso ogni rinnovamento dell’indagine. Né a difesa di tale assolutezza era lecito invocare lo spauracchio, agitato dai “conservatori” dei più diversi schieramenti, circa le “terribili conseguenze” che il fallibilismo avrebbe potuto avere: “Il conservatorismo […] è totalmente fuori luogo nella scienza, che al contrario è sempre stata spinta in avanti dai radicali e dal radicalismo, nel senso dell’impazienza di portare le conseguenze all’estremo. Non però da un radicalismo arcisicuro, bensì da un radicalismo che tenta esperimenti”.

Forse, uno degli esempi nella pratica scientifica del Novecento di questo radicalismo che tenta esperimenti è l’avventura intellettuale di un grandissimo matematico italiano, Bruno de Finetti, di cui ricorre, peraltro, quest’anno (2006) il centenario della nascita (1906). Questa avventura, in particolare il profondo rinnovamento della teoria delle probabilità come “logica dell’incerto”, è stata mirabilmente ricostruita, utilizzando alcuni testi chiave dello stesso de Finetti, da Marco Mondadori in un volume (B. de Finetti, La logica dell’incerto, a cura di M. Mondadori, il Saggiatore, Milano 1989) che ripresentava non solo il fondamentale “Probabilismo. Saggio critico sulla teoria delle probabilità e il valore della scienza” (1931), ma anche il decisivo intervento all’Istituto Poincaré “La previsione: le sue leggi logiche, le sue fonti soggettive” (1937) – l’originale è in francese, il volume curato da Mondadori ne offre invece la prima versione italiana. Come ha osservato lo stesso Mondadori, la genialità di Bruno de Finetti consiste nell’essere riuscito a trasformare “un’idea filosofica pazzesca”, così la definivano i suoi critici “oggettivisti”, “nel nucleo di un programma scientifico tra i più progressivi del Novecento” – quella concezione “soggettiva” o “personale” delle probabilità che ha visto decollare, grazie ai risultati definettiani, la cosiddetta statistica bayesiana. In questa sede non interessano gli aspetti tecnici della questione, come riemerga con Bruno de Finetti lo spirito del fallibilismo, in interessante sintonia con le parole di Galileo e quelle di Peirce che abbiamo sopra citato.

Mi sia lecito rimandare, in particolare, a un testo filosofico di Bruno de Finetti, L’invenzione della verità, concepito nel 1934 (dunque, nel periodo in cui il matematico si era gettato nelle dispute!), ma pubblicato solo quest’anno (Raffaello Cortina, Milano 2006), grazie al generoso impegno della figlia Fulvia. Nelle pagine iniziali di quest’ultimo saggio, Bruno de Finetti tratta anche di quelle concezioni che tendono ad attribuire “un valore assoluto ed eterno” a questa o quella pretesa “verità”. Scrive: “Questa illusione diffusa inveterata e tenace ha costituito e costituisce il maggior inciampo per la Scienza e per la stessa Filosofia, spingendo ogni successiva concezione a non contentarsi d’essere ‘la verità d’oggi’, punto di partenza per un ulteriore periodo di progresso scientifico, ma a pretendere d’essere “la verità”, e cercare qualche appiglio per consacrare se stessa come ultimo e definitivo verbo della Filosofia. Danno per la Scienza, che, quando giunge a una svolta essenziale, offre le difficoltà intrinseche di quel momento delicato ed eroico, si trova tra i piedi una muta di botoli ringhiosi a difesa dei loro minacciati feticci; danno forse anche maggiore per la Filosofia, che, beata della propria verità impercettibile, si stacca dalla Scienza e dai problemi che il suo progresso continuamente pone, provandosi così dell’unica possibile fonte di alimento, e condannandosi a isterilire e fossilizzarsi nella ripetizione monotona di frasi che vanno svuotandosi sempre più”.

L’atteggiamento che de Finetti esprime nei confronti della verità non è quello dello scettico che, come il serpente del celebre emblema, finisce per mordersi la coda; bensì quello del buon pragmatista: “Una tale critica non pretende di dimostrare l’impossibilità di giungere a una verità che non abbia mai più bisogno di ritocchi: un simile intento sarebbe contraddittorio, ché esso consisterebbe proprio nello stabilire una tale verità”. Ed è da buon pragmatista anche la conclusione (su tale punto) di Bruno de Finetti. Il suo punto di vista non è una verità che si impone, ma solo un atteggiamento “che conviene abbracciare [… come] favorevole alla possibilità indefinita di progresso, dato che esso non causa alcun danno e molti ne evita”.

Potrei chiudere qui, ma di questi tempi è bene anche ricordare quanto sia scomodo siffatto atteggiamento: esso è, per ricorrere a un’immagine tratta dalla mitologia, come il volo di Icaro. Nella interpretazione cara alla “pia devozione”, quel mito dovrebbe servire ad ammonimento per i ricercatori che troppo destabilizzano la costellazione delle idee e dei valori ricevuti. Per Giordano Bruno, al contrario, l’immagine di Icaro era l’emblema della passione per il conoscere, di quel tipo di “eroico furore” che preferisce rischiare la morte da libero piuttosto che tollerare una vita da sottomesso. L’Amleto di Shakespeare ci fa capire dalle parole del tiranno Claudio e del suo accolito, il pedante Polonio, quanto i potenti si sentano “turbati” dalla libertà di indagare la natura a modo proprio. In questa sede non è nemmeno il caso di insistere, poiché credo che il pubblico ben sappia quali siano i frutti perversi quando da questo da questa o quella pretesa “radice” spunta la pianta del totalitarismo: dalle condanne di Bruno e di Galileo alla ferocia della repressione staliniana contro i biologi sovietici al tempo del famigerato caso Lysenko.

Preferirei terminare con una immagine più leggera di un grande pensatore italiano, Giovanni Papini, ben familiare al de Finetti di “Probabilismo” e di questo L’invenzione della verità. Scriveva Papini in Sul pragmatismo (saggi e ricerche, 1903-1911) (volume pubblicato nel 1913) che il pragmatismo era “una teoria corridoio – un corridoio di un grande albergo, ove sono cento porte che si aprono su cento camere. In una c’è un inginocchiatoio e un uomo che vuol riconquistare la fede – in un altro uno scrittoio e un uomo che vuole uccidere ogni metafisica – in una terza un laboratorio e un uomo che vuol trovare dei nuovi ‘punti di presa’ sul futuro… Ma il corridoio è di tutti e tutti ci passano: e se qualche volta accadono delle conversazioni fra i vari ospiti nessun cameriere è così villano da impedirle”.

Anche oggi qualche “cameriere villano” si fa avanti a intimarci che cosa dovremmo credere, di fronte a quali assoluti inginocchiarci e quali sarebbero i limiti cui la ricerca dovrebbe sottostare. Il fatto che talvolta si tratti di “un personale” che occupa posti di rilievo nelle burocrazie della Politica o dello Spirito, non deve troppo impressionarci, almeno se vogliamo che quella spregiudicata indagine del mondo di cui hanno trattato gli autori qui citati non si arresti. E’ questo il nostro principale dovere nei confronti delle future generazioni.

Giulio Giorello

Il futuro della democrazia

di Carlo Sini


Il futuro della democrazia: tema complicato, ampio, per cui ho dovuto fare delle scelte, ho predisposto un cammino, un piccolo cammino, che ho articolato in due momenti, in due domande. La prima si potrebbe formulare così: qual è il futuro desiderabile per la democrazia? Il che significa già presupporre che molte cose non vanno nella direzione della democrazia.
E la seconda questione è: quali sono le condizioni di possibilità perché questo futuro, augurabile e desiderabile, trovi appunto realizzazione?

Credo, anzitutto, che dobbiamo avere chiaro perché parliamo di un futuro della democrazia dando, in qualche misura, per scontato che questo sia il problema politico attuale e dell’immediato futuro, e non soltanto immediato. Voglio dire, siamo tutti convinti che non abbiamo altro futuro che non la democrazia? Ecco, io convinto di sì. Ma mi rendo conto che non è possibile una tale affermazione senza una giustificazione, in un campo così opinabile e controverso. E allora se è vero che il futuro politico dei popoli della terra è quello di una democrazia planetaria, di una democrazia universale - ambigua espressione che, come tutte le espressioni, può essere giocata talvolta con malizia, o come scudo di interessi che non coincidono con quello che si vorrebbe comunicare con queste espressioni - questa democrazia che si auspica con forza diventi appannaggio di tutti i popoli, di tutte le culture, di tutte le etnie, di tutte le tradizioni nelle diverse antichità religiose che ancora sono presenti, che democrazia è? Cosa intendiamo quando immaginiamo una democrazia universale?

Questo già sarebbe un tema sul quale confrontarsi a lungo. Io ho individuato quattro elementi. Spero di essere stato felice in questa individuazione. Quattro elementi che, a mio avviso, rendono la democrazia un tipo di governo irrinunciabile per quello che concerne il nostro futuro. Quattro condizioni, diciamo così, che se realizzate non eliminano la discussione sulla democrazia. Questo è il governo dei popoli che vorremmo tutti, e che si identifica in un ideale democratico, attraverso quattro – ma potrebbero essere di più – elementi a mio avviso condivisibili, e condivisi, largamente condivisi nella attualità della vita sul pianeta.

Primo elemento: democrazia significa libertà dell’individuo nelle sue scelte. Mai come in un regime democratico moderno la vita individuale è stata esaltata, rispettata, sollecitata, anche per certi versi corteggiata. L’individuo deve essere libero di scegliere, deve essere colui che è padrone del proprio destino, e che deve avere le condizioni di possibilità per la realizzazione dei suoi ideali, dei suoi desideri, di una vita felice e dignitosa. Questo, direi, non accade in altri regimi, non è accaduto in passato in regimi che hanno avuto magari altri meriti, altre virtù, che possiamo anche invidiare. Mancava però questa dignità e libertà dell’individuo nelle sue scelte di vita, la libertà di un individuo che non è sottomesso a quello che gli economisti chiamano “la società del dono”, che ha tante virtù, ripeto, ma che ha però gli aspetti negativi di vincolare gli individui ad un patto di restituzione infinita. Io sono infinitamente in debito nei confronti del padre, della madre, del nonno, della bisnonna, del re, del sovrano... sono sempre in debito. Per tutta la vita io devo restituire con la mia vita la vita che mi è stata data? Ecco, questa cosa con la democrazia moderna, con l’età moderna, è finita. L’individuo ha certamente dei debiti, ma ha anche il diritto alla propria vita personale, alla propria libertà di scelta personale. Ed è una cosa così importante che credo che nessuno di noi – se tornasse indietro di cent’anni, centocinquant’anni – ce la farebbe a vivere in quell’altro mondo pur con tutta la nostalgia che talvolta i mondi del passato suscitano per tante ragioni etiche, estetiche, morali, religiose. Tutto quello che si vuole, però non ce la faremmo, non riusciremmo più a vivere in quella costrizione dove l’individuo non è padrone del suo destino. Questo disse Kant, meravigliosamente, quando parlava dell’Illuminismo e della rivoluzione illuministica: “Finalmente l’individuo diventa libero di decidere per la sua vita”. Ecco, questo è un punto ineliminabile, mi pare, di un ideale democratico.

Un secondo punto sono quelle che si chiamano le “garanzie giuridiche”. La democrazia è costituita, è costruita su una serie di garanzie giuridiche e di garanzie economiche: diritto al lavoro, ma anche garanzia di non poter essere arrestato, inquisito senza processo, senza giusta causa, ecc., ecc.. Tutta una serie di garanzie formali che sono appannaggio tipico della battaglia moderna per la democrazia, e che di nuovo, io credo, costituiscono un punto ineliminabile nel senso che se queste non sono realizzate, non siamo di fronte a una reale vita democratica.

Terzo punto, che mi sembra, almeno a parole, condiviso in tutte le culture dell’Occidente e ampiamente, come dire, in espansione anche in altre culture, magari con difficoltà di espressione, con difficoltà di affermazione, ma nei cuori ben saldamente iscritto, soprattutto nei cuori dell’altra metà del cielo: la pari dignità delle donne. Ecco, questa è un’altra cosa fondamentale della democrazia. Senza la quale non si può immaginare vita democratica.
E l’ultima cosa – come è ovvio – la partecipazione politica; il diritto di una partecipazione, il diritto/dovere di una partecipazione politica attiva, di una capacità di autodecisione politica, e non soltanto privata, della vita privata.

Mi fermerei a questi quattro elementi, se ne possono aggiungere altri, come è ovvio, e questi stessi si possono articolare in tanti modi. Ma questi quattro sono quelli che, se realizzati, renderebbero il governo democratico della vita umana assolutamente preferibile, assolutamente idealmente augurabile, quello che nessuna tradizione, nessun popolo oggi potrebbe rifiutare o non desiderare. Perché? Starei, innanzitutto, attento a dare un fondamento strettamente morale a questi punti. Noi li viviamo come doveri morali, diritti morali, pretese morali, cioè come valori – come si ama anche dire – ai quali non si può rinunciare e rispetto ai quali si deve guardare ad un progresso possibile. Credo che senza esagerare, senza dare troppa enfasi a questi pur importantissimi punti, possiamo dire più concretamente: sono conformi al nostro stile di vita. Probabilmente erano inimmaginabili, irrealizzabili e anche astratti, non concreti, in altri tempi. Non facciamo una morale universale della storia, che molto spesso ci grava di pregiudizi. Diciamo che la vita attuale, la produzione materiale e spirituale della vita - la produzione materiale delle cose con le quali e delle quali viviamo, e la produzione delle conoscenze che sono parte integrante della nostra vita spirituale, oltre che della nostra vita materiale - esigono questi quattro punti. Esigono la libertà dell’individuo nelle sue scelte, guai se l’individuo non fosse libero, sarebbe anche una catastrofe economica nella nostra società. Esigono certi diritti, certi doveri delle istituzioni, esigono la parità tra i sessi, perché la vita è diventata paritaria. Perché non ci sono più funzioni così determinanti o individuanti tali per cui debbano esserci anche valori etici condivisi sì, ma profondamente differenziati. Ci sarà sempre una differenza, suppongo, tra i due sessi, ma questa non comporta nessuna sottomissione e nessuna negligenza nel riconoscere la pari dignità della donna (che d’altronde già Platone invocava) nelle sue scelte di vita.

Ecco, io direi che le condizioni di vita ci abilitano a comprendere che questi quattro elementi sono fondamentali per la vita democratica, e laddove una società democratica li garantisse noi, forse, saremmo di fronte ad una situazione desiderabile. Mi sembra, almeno, che si possa dire questo con una larga convergenza di opinioni.

Ma la domanda allora è, e qui veniamo ai punti veri: l’attuale organizzazione della vita democratica in Occidente, là dove c’è una democrazia operante - perché sappiamo bene che non c’è su tutta la Terra, anzi è ben lontana dall’esserci - là dove però c’è, là dove si deve dire (in maniera innegabile) che esiste un governo democratico, una società democratica, un ordinamento democratico, un fondamento anche giuridico che si ispira a valori democratici; là dove c’è la democrazia, insomma, questi quattro punti sono davvero realizzati? La risposta è no, naturalmente no. La risposta è che non è così.

E allora la domanda successiva è, direi, più impegnativa. Che le cose non vadano bene è facile constatarlo, se commentassimo i quattro punti uno per uno avremmo molte ragioni per dire che c’è una insoddisfazione diffusa, che c’è una realizzazione molto parziale di questi elementi. Ma la questione che ora si pone, secondo me, è la seguente: siamo in un processo per il quale è ragionevole pensare che queste inadempienze della realizzazione democratica siano momenti storici che però, in un prosieguo di tempo, potrebbero essere risolti... anzi, saranno risolti? E’ questione di tempo, in parole povere, abbiamo bisogno di rodarci, perché da troppo poco tempo la democrazia abita sul pianeta? E allora è ragionevole, è sensato pensare che bisogna dare tempo al tempo e che bisogna lavorare in una direzione che però finirà fatalmente per affermarsi? O, ci sono delle ragioni strutturali, costitutive diciamo, dell’attuale democrazia che rendono poco probabile che le cose stiano come ho detto nella prima ipotesi, cioè che non è questione solo di tempo, non è questione solo di maturazione, non è questione solo di sormontare difficoltà contingenti in un progresso che però (inevitabilmente) ci porterà alla realizzazione di questa desiderabile forma di vita? No, non è questo. Questa democrazia, nonostante gli ideali che prima ho enunciato, e che io credo largamente condivisibili su questo pianeta, questa democrazia non è in grado di realizzare i quattro punti di cui ho parlato. E quindi noi siamo di fronte non ad un lavoro storico, progressivo, che con pazienza, con lungimiranza, con saggezza, realizzi un po’ alla volta. No. L’altra ipotesi è che noi siamo di fronte ad una sorta di fatica di Sisifo, che sempre di nuovo ci troveremo a scontrarci con difficoltà strutturali che non consentiranno la realizzazione di questi quattro punti; o ne consentiranno una realizzazione molto parziale, quando non addirittura degenerativa. Non lo dico con piacere, spero anche di sbagliare, ma sarei molto incline ad aderire alla seconda ipotesi. Cioè a pensare che questa democrazia è strutturalmente incapace di realizzare la democrazia. In parole povere, è che a noi non si chiede soltanto la buona volontà, la fiducia nella storia; non soltanto si chiede, quindi, una fiducia nel progresso, ma si chiede uno sforzo, uno sforzo di fantasia – se si può dire così -, uno sforzo creativo e soprattutto un coraggio critico che, mordendo là dove le cose non vanno bene per loro struttura, innanzitutto denunci questi difetti, come già si comincia a fare da tempo, peraltro. E poi si provi a pensare quali siano le condizioni (come dicevo prima, il secondo momento) di realizzabilità, cioè che cosa dobbiamo cambiare perché la democrazia effettivamente viva sulla terra in maniera adeguata ai suoi scopi, ai suoi fini. Allora per sostenere questa seconda tesi - cioè che c’è un male strutturale nella democrazia così come la conosciamo oggi, la democrazia attuale, moderna - per sostenere quindi la tesi che dobbiamo pensare a cambiamenti anche profondi, e immaginare dove possano incunearsi nella vita concreta delle persone, per sostenere questa tesi che, ripeto, è una tesi, è un’ipotesi, vagliamola insieme.

Per esaminarla prendiamo semplicemente uno dei quattro punti. Non abbiamo il tempo di esaminarli tutti e quattro anche se sarebbe istruttivo. Prendiamo l’ultimo, perché in qualche modo li riassume e li compendia e, vedremo, anche li esemplifica dentro di sé.

Il diritto all’autodeterminazione politica, il diritto alla scelta politica in quanto perno del cittadino democratico, essenza della sua democrazia, essenza della sua partecipazione ad una società democratica.

Domanda: siamo noi in grado di determinare politicamente la nostra società? Sono in grado, i cittadini democratici dell’Occidente (non solo gli Italiani, non chiudiamoci nella nostra visione molto particolare), i cittadini americani sono in grado di determinare realmente le scelte politiche reali del loro Paese? Qual è lo strumento o gli strumenti normalmente invocati dai difensori della democrazia?

Solitamente si indicano due cose - per difendere il potere di scelta del cittadino in una società democratica e nessuno può dire che non siano importanti o che non siano da difendere anche andando in piazza, se venissero minacciate - la prima è il voto popolare, il voto universale, per il quale si sono fatti sacrifici, lotte infinite, il voto alle donne... solo cento anni fa non c’era il voto alle donne. Il voto a tutta la popolazione. Solo cento anni fa non c’era il voto a tutta la popolazione, i poveri non votavano... Sono cose rilevanti, sulle quali meditare. Quindi prima di dire “il voto popolare è uno strumento inefficace” bisogna tenerlo ben caro, no?
Detto questo, ribadita questa fiducia nel voto democratico, vi sembra che l’organizzazione del voto democratico sia plausibilmente efficace? Sia plausibilmente una effettiva scelta sulle questioni effettive di fondo, che regolano la vita di una società nei suoi aspetti materiali, morali, spirituali, tecnici, scientifici, ecc., ecc.? O non c’è il rischio - che è stato tante volte peraltro denunciato – che il momento del voto sia un grande momento, diciamo così, di festa popolare? Per carità, un grande momento di presa di coscienza, anche sociale, politica e, quindi da questo punto di vista un momento aggregante, ma che poi si riduce in una formalità incapace di mordere davvero sulla realtà.

Che cosa ci fa pensare questo? Primo: di cosa si dovrebbe godere per poter esercitare un voto incisivo, un voto che effettivamente esprima un parere e non un’emozione, non uno stato d’animo passeggero, non una identificazione psicologica con una o un’altra parte, per ragioni che (ormai la sappiamo lunga sulla psicologia del profondo degli esseri umani) con la vera e propria libertà democratica o libertà politica hanno poco a che fare, identificazioni che nascono da tutt’altri canali. Per poter fare ciò i cittadini dovrebbero godere di due grandi privilegi. Il primo: una informazione ampia e oggettiva. Il secondo: una cultura che permetta di apprenderla. L’una e l’altra cosa non esistono. Diciamolo con franchezza. Non esistono ed è anche difficile che esistano, intendiamoci. Non è soltanto che non esistono perché c’è la malvagia volontà di non farli esistere. Certo, c’è anche questa, fa comodo che non esistano, su questo non c’è dubbio.
Ma soprattutto il fatto è che una corretta informazione esigerebbe un lavoro di tale mole e di tale onestà, di tale oggettività, di tale condizione di colui che lo esercita come colui che è sopra le parti. Ma dove sta un Paese così beato? Dove sta una condizione così idillica? Come diceva il grande Kant: “Chi controlla i controllori?”. Questo è il grande problema della democrazia e di ogni Stato che si fondi, per esempio, sulla separazione dei poteri, cosa fondamentale che in Italia è stata messa a serio rischio. I poteri dello Stato devono essere liberi e indipendenti, esercitando un reciproco controllo. Già, ma “chi controlla i controllori?”, questo è un problema di fronte al quale tutti rimaniamo palesemente incerti.
Il secondo: ma se è vero che questa società democratica si fonda sulla scelta del popolo (cioè di tutti noi) e che il voto di ognuno di noi esprime una sincera, profonda, meditata, razionale, valutazione pro o contro, in un senso o nell’altro, non vi pare allora che la cosa più importante di una società democratica sia l’istruzione dei suoi cittadini? Non c’è niente di più importante in una società democratica del fatto di portare la cultura ai cittadini. Quella cultura che non è semplicemente ornamento dello spirito... “del piacere della sera”, come diceva Wagner che era un aristocratico, quindi vedeva le cose molto polemicamente rispetto alla democrazia. Non è solo “il piacere serale del lavoratore estenuato”. No! E’ la cultura, appunto, del primo punto: io sono padrone della mia vita, ho la libertà e il diritto di determinarmela, ma per fare questo però devo sapere qual è il mio bene (diceva Socrate), se non sono in grado di valutare, di giudicare, con mente pura e con cultura adeguata qual è il mio bene allora il mio voto è il voto di un poveraccio, è il voto di uno schiavo, non di un uomo libero. Allora io vi chiedo: vi sembra che le società democratiche dell’Occidente investano la maggior parte dei loro denari nella formazione dei cittadini? Vi sembra che gli organi dell’informazione pubblica, soprattutto i famosi mass media, abbiano come finalità l’educazione dei cittadini? E’ palesemente falso tutto questo, no? Sappiamo che non è così. Ma se non è così allora dobbiamo dire con forza che questa società dichiara di essere democratica, ma non vuole essere democratica.

Una società che accetta che i suoi strumenti di informazione, che i suoi strumenti di svago (cosa legittimissima, per carità), che i suoi strumenti culturali, in senso lato, siano nelle mani di pagliacci e mascalzoni, pagliacci e mascalzoni, venduti di tutti i generi, un circo Togni (con tante scuse per il circo Togni), una civiltà e una società che accetta questo è una società che dichiara di essere democratica, ma che non vuole essere democratica. Non vuole che i suoi cittadini siano davvero in grado di giudicare, abbiano la sensibilità, la cultura, la raffinatezza, il tempo, il tempo per prendere piacere ad una valutazione oggettiva delle cose loro. No, questa è una società illusionista. Questa è la società di Gorgia, non è la società di Platone. Questa è la società dei retori, non è la società dei logici, dei filosofi, degli scienziati.

E allora, nel momento in cui, non di meno, tutti noi siamo chiamati ad una valutazione certamente siamo di fronte ad un bene prezioso. E, ripeto, lo dobbiamo difendere con le unghie e coi denti. Ma nello stesso tempo dobbiamo essere ben consapevoli che esso è tutt’altro che sufficiente. Esso è, come dire, nelle mani di due grandi pericoli o nella deriva di due grandi pericoli. Di una semplice illusione di poter determinare davvero il futuro politico della società in cui viviamo, mentre invece noi semplicemente lo avvaloriamo con un voto che garantisce i “padroni del vapore”, che garantisce i reali potenti di una sorta di democratica accettazione da parte di tutti noi. Quindi diventa molto più comodo per loro, che per noi, questo tipo di diritto che noi esercitiamo.

La seconda deriva è che non sappiamo che cosa scegliamo. E, badate, molte volte non lo sappiamo. Anche nei problemi contingenti, come dire, c’è una quantità sterminata di informazioni che possono ad arte essere piegate di qua o di là, l’ironia delle cifre, o il balletto ridicolo e grottesco delle cifre per cui ognuno si può inventare una qualche cifra che gli dà ragione. Sembra incredibile, è la matematica messa al servizio di Gorgia, appunto, del retore, messa al servizio dell’illusionismo politico. Ecco, tutto questo fa sì che il nostro voto – sacrosanto dovere e diritto che ognuno di noi ha – si vanifichi. E io credo che si vanifichi aggiungendo un’ulteriore osservazione, alla quale personalmente tengo molto. Credo che si vanifichi anche per una ragione molto precisa, che forse ci fa individuare possibilità alternative a come noi, oggi, viviamo il momento democratico del voto, del rinnovamento delle Camere, ecc., ecc.. Ed è questa la riflessione: secondo voi - riflettendo, liberando la mente da ogni pregiudizio e da ogni timore, prendendo la cosa per quello che è, senza timori nei confronti di ipotesi che spaventano, e certo, certe ipotesi spaventano - secondo voi è più importante politicamente scegliere o controllare? Io credo controllare, francamente. Credo controllare perché nella maggior parte dei casi io non sono in grado di scegliere.

Nessuno di noi è in grado di scegliere, la realtà è sempre più complessa. La realtà è sempre più leggibile in tanti modi. Il futuro dell’economia... ma neanche gli economisti riescono a sapere qual è il futuro dell’economia. Se parla un economista di un certo tipo mi convince subito, poi parla il suo collega e mi convince anche lui. Io non sono un economista, nessuno di noi (tranne eccezioni) è un economista. Se è un economista è una voce tra le molte, e perché quella dovrebbe essere più vera di un’altra? Quindi la realtà è che noi viviamo in una complessità di fenomeni, come dire, di previsioni, che sono difficilmente valutabili a priori da un cittadino comune. E io non sono molto contento di essere chiamato a fare delle scelte su cose di cui non capisco nulla, o per le quali non ho i dati sufficienti. Se uno mi chiede, nell’ambito del mio mestiere: ma per l’Università questa legge è buona o cattiva? Io gli dico subito: cattiva. E avrei da parlare per sei mesi per dirvi perché è cattiva, e avrei da portarvi molti elementi. Poi un altro la penserà in un altro modo, certo. Ma sono certo che io sarei in grado di motivare il mio giudizio in maniera molto precisa, con esempi concreti, con esperienze che io con i miei occhi ho fatto. E vi dico: così non va bene, questa legge è da cambiare, quanto meno è da trasformare profondamente; speriamo che lo facciano nella prossima legislatura. Questa è l’opinione del cittadino Carlo Sini che fa il professore. Ma se voi mi chiedete: dobbiamo scegliere il nucleare o no? Dobbiamo fare la tangenziale o no? Io non lo so. Ma perché, voi lo sapete? Poi ognuno di noi ha un suo orientamento politico, è affezionato a certe cose, viene da una certa cultura, da una certa tradizione, e quindi si fida di quelli con i quali si identifica. Ma questo non è un buon criterio per giudicare, per valutare. Quello che vorrei, come cittadino, sarebbe una cosa che invece non mi è mai, in alcun modo, data: il controllo che ciò che è stato scelto dai competenti, e che è stato dichiarato essere il meglio per tutti noi, diventasse efficiente, e che ognuno di noi potesse pretenderlo, e che avesse delle forze capaci, diciamo così, di esigere dai responsabili il risultato. Questo nella vita democratica è rarissimo e spesso è enfatico. Di nuovo diventa uno scontro, uno scontro retorico, l’uno dice “avete fatto tutto male”, l’altro dice “ma non è vero, è tutto vero il contrario”... siamo daccapo.

Il controllo è una cosa concreta. Il controllo è una cosa che si può esercitare soltanto attraverso una presenza e una protezione legale. Questo tipo di pensiero l’hanno avuto, in passato, le organizzazioni sindacali che nell’ambito del loro ufficio si sono preoccupate molte volte in passato del senso globale. Cioè, non mi basta proteggere gli interessi dei lavoratori (tipo gli operai della Fiat o di qualche cos’altro) vorrei anche capire quali sono gli orientamenti generali dell’azienda, quali sono le funzioni sociali dell’azienda e quali sono i propositi e quali sono gli scopi, e poi verificarli. Si è detto molto male di questo atteggiamento dei sindacati, lo abbiamo sentito molte volte demonizzare. E forse ha avuto anche degli aspetti negativi, per carità! Però, in realtà, se i sindacati non sono in grado di garantire questo per il cittadino, perché i sindacati hanno una loro storia, una loro grande e nobilissima tradizione, in una vita democratica ci devono essere comunque delle strutture di controllo. Non è possibile che il potere faccia quello che vuole, dichiari quello che vuole, prometta quello che vuole, e poi ce ne dimentichiamo tutti e ricominciamo daccapo a votare le marcette, le fanfare e le bandierine. Perché questo è prenderci per il naso.

Noi abbiamo bisogno di poteri di controllo. Questi poteri di controllo sono spesso garantiti sulla carta e resi impossibili di fatto. Provate ad andare a chiedere in un consiglio di amministrazione di leggere gli atti del consiglio - ne avete il diritto -, non li leggerete mai. Cioè dovreste fare solo quello nella vita: lasciare il lavoro e perseguitare queste persone sino a che farete in modo di vedere riconosciuto il vostro diritto di leggere gli atti che sono dichiarati pubblici, ma che nessuno vi darà mai creando una serie di difficoltà. Ognuno di noi ha una vita difficile da vivere, lo so bene, ognuno di noi ha tempo molto risicato, come si dice, e ognuno di noi, anche, si annoia a inseguire queste vicende. Però questo è il punto vero. Questo è l’unico discorso serio nell’ambito di un controllo democratico. La difficoltà è che noi non immaginiamo minimamente come si possa realizzare.

Credo che si debba, e si possa, anzitutto realizzare nell’ambito concreto nel quale uno vive e lavora. Perché certo io non mi posso andare a interessare di come si organizza il Coni, pur amando lo sport, ma non è la mia vita, non ne so niente, non ho fatto nessuna esperienza. Ma vorrei essere molto presente nelle valutazioni del ministero che regolamenta il rapporto tra i professori e i gli studenti, i programmi che si insegnano a scuola. Vorrei avere un controllo. Ma non un controllo nel senso che ho il diritto di scegliere a priori... scelgano i cosiddetti competenti, e ogni partito al governo si assuma la responsabilità di dire ‘io seguo questi competenti’. Quindi i competenti mi diranno che scelta hanno fatto: poi io vado a vedere se gli effetti di questa scelta hanno avuto esiti positivi nei nostri giovani. Perché questo è il mio dovere di professore, questo io devo dare alla società, non un’altra cosa. Ma per poterlo fare non basta che io insegni con tutta la buona volontà, devo essere padrone del diritto politico di intervenire localmente là dove ho una competenza e una diretta presenza. Questo mi deve essere istituzionalmente garantito. E il voto generico non me lo garantisce. Il voto generico può andare bene per tante cose, ma certo non ha il potere di inserirsi, di entrare in questi particolari. Allora vedete, quando noi siamo di fronte ad una società che ostinatamente nasconde le mani, come diceva Macchiavelli con una bellissima metafora, noi vediamo gli occhi e la bocca dei nostri governanti, ma le mani no. Quando una società si comporta così allora è difficile riconoscerle una grande sostanza democratica. La democrazia sta più nella forma che nella realtà vera. Non soltanto, siamo di fronte ad una società la quale non si limita a mostrare, diciamo così, il viso dei nostri governanti ma non le mani, c’è di più: non mostra (lasciatemi usare questa immagine, sebbene abusata) i veri padroni. E allora va ancora peggio. Perché è molto facile gettare sulle spalle degli uomini politici la responsabilità di tutto. Vogliono il nostro voto e vogliono esercitare un potere. Un potere che poi consente loro di fare tante cose per loro e per la loro parte, lo sappiamo benissimo.

Ma, vedete, il punto vero è: sono davvero questi i padroni? Sono davvero questi i luoghi di potere della democrazia? E’ davvero lì che si decidono le cose? O non si decidono piuttosto in luoghi a noi totalmente inaccessibili? In salotti misteriosi, in corridoi nei quali noi non passeggiamo? E allora qui entriamo in quell’altro aspetto, in quell’altro profondo aspetto che rende, a tratti, desolante l’esercizio popolare del voto. Desolante perché, purtroppo, non si può in alcun modo accedere a questi livelli. Certo, si può condizionare, per carità. Per fortuna ancora questa possibilità ce l’abbiamo. Abbiamo la possibilità quantomeno di dire: NO! E questa è una grande possibilità, dire: “così come sta andando, non ci va!” Ecco questo diritto almeno lo possiamo esercitare. Ma con questo non abbiamo né determinato, diciamo così, una reale svolta né toccato gli interessi che stanno dietro. Perché io temo che molte volte quelle che sono le alternative che ci vengono offerte siano nascostamente negoziate con i padroni del vapore. Inevitabilmente. Perché l’uomo politico è un uomo concreto, non è un sognatore. E’ un uomo che deve faticosamente, ogni giorno, e a rischio personale mediare tra interessi terribili. Questo deve fare un politico, se non fa questo evidentemente è meglio che cambi mestiere. E allora l’ultimo punto. L’ultimo punto sul quale vorrei riflettere insieme a voi: può oggi, soprattutto oggi, può il nostro voto, possiamo noi il 9 aprile - votando in un modo e in un altro – determinare davvero il futuro economico di questa società? Ecco, la mia risposta è: profondamente no. Perché - anche di fronte alle migliori intenzioni, e anche di fronte alla possibilità che certe cose indubbiamente vadano meglio, o siano comunque trasformate - ci sono delle testimonianze di questi ultimi cinque anni che dicono che le classi abbienti, in Italia, non avevano mai trovato un periodo così fortunato e felice. Questo lo dicono loro. Si può un pochino cambiare, certamente, possiamo evidentemente dare una svolta sociale ed economica che tenga maggiormente conto di certi aspetti, il problema dei nostri giovani, ad esempio. Sì, questo si può fare. Ma possiamo noi davvero mettere in discussione la situazione, la struttura economica, il modo di produrre le cose, il modo di diffonderle nel mondo, di venderle e di comprarle? E quindi i destini del lavoro, di questa società e delle società della terra? Siamo davvero noi – Stato italiano – in grado di promuoverli? O i nostri governanti sono già inevitabilmente all’interno di un’intesa internazione, ben precisa, entro la quale - come mi disse una volta l’amico Massimo Cacciari che parlava del suo fare il sindaco a Venezia: “Ho tanto spago, così” – i confini sono limitati? Ecco, quanto spago abbiamo? E allora qui, di nuovo, vengono fuori alcuni problemi rilevanti. Esiste la possibilità di una vita politica, democratica, che affida agli elettori l’autodeterminazione delle scelte politiche senza che queste siano radicalmente e fortemente economiche? Credo che la risposta sia: no, non è possibile. Se le nostre scelte politiche sono scelte di tendenza, di faccia, di tradizione, di cultura, va benissimo, ma non sono sufficienti. Non sono sufficienti se non mordono là, se non decidono là, se non indicano là dove davvero si prendono quelle decisioni che poi passano sopra la testa della vita politica corrente, che sono più importanti della vita politica corrente. Questo è un problema che sta diventando esplosivo.

Questo è quel problema per il quale quando si parla di democrazia planetaria, molti di noi hanno un irrigidimento, che è un irrigidimento doloroso. Perché, come dicevo prima, chi è sinceramente democratico dovrebbe essere contento di sentir parlare di democrazia planetaria, di democrazia universale. Ma non è così, perché quella che viene in questo modo propagandata, e sostenuta, è la democrazia di una certa scelta economica precisa. La quale non va certamente in direzione di quei quattro punti, o vi va solo molto parzialmente, e solo attraverso molti sacrifici, dolori di una parte dell’umanità.

Voglio dire che noi ormai siamo di fronte ad una situazione economica globale, mondiale, nella quale le scelte sono state sottratte ai governi, almeno in parte. E ormai si orientano secondo principi di cosiddetto “liberismo economico” che sono (detto fuori dai denti, papale papale) l’interesse dei più potenti e dei più ricchi. Questo è assolutamente vero, capite? E’ incontestabile. Gli errori sono stati creati dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale, denunciati dai loro stessi dirigenti, quando se ne sono resi conto, e quando sono venuti fuori... E questo orrore indica chiaramente che le scelte economiche del pianeta non vanno in direzione di una vita democratica. Alla lunga noi porteremo una devastazione – come stiamo portando alcune devastazioni – in tante parti della Terra per mantenere il privilegio e la ricchezza di altre parti, o di componenti molto piccole di queste altre parti, le quali sono assolutamente ignote a voi e a me, sono assolutamente fuori dal nostro gioco di elezione democratica. E questo i nostri uomini politici lo sanno, dalla A alla Z, molto meglio di noi.
Ma li avete mai sentiti parlare così? E’ molto raro che parlino così. Qui, per esempio, subito si vedono alcune cose che sono oggetto di una discussione interessante, da qualche mese, anche da qualche anno. Si dice che di fronte al globalismo, all’economia globale, al mondo che supera tutte le frontiere, che crea grandi coalizioni di interessi - l’Unità europea, il Giappone, gli Stati orientali, poi quelli emergenti che fanno così paura, la Cina, l’India - si dice che di fronte a questo scenario gli Stati nazionali non abbiano più niente da fare o poco da fare, perché effettivamente sono, come dire, spogliati delle loro facoltà giuridiche. Se io sono Stato italiano e sono di fronte ad una catena internazionale, non ho gli strumenti per perseguire questo soggetto giuridico. Cioè, questo soggetto giuridico mette gli uffici di rappresentanza a Milano, ma gli operai sono in Malaysia, e un altro gruppo di impiegati stanno nel Perù... e io come faccio a intervenire? Io Stato italiano, che giurisdizione ho? Su questo non ce l’ho.
E allora si dice, giustamente, gli Stati ormai non contano più nulla. Ma badate si sta riflettendo sul fatto che la soluzione non è in uno Stato globale, in un’Onu globale, l’Onu faccia il suo mestiere... Ma siamo anche ben consapevoli del limite di incidenza, perché l’Onu non avrà mai il potere militare e il potere di intervento della forza, perché ci vuole la forza nella politica per poter imporre certe cose, piuttosto che certe altre. E questo potere non l’avrà mai perché lo prende da quegli stessi membri che la tengono in vita. E quindi glielo daranno se hanno interesse a darglielo e glielo toglieranno se hanno interesse a toglierlo. Allora la soluzione del globalismo, che supera le situazioni politiche locali, la giurisdizione locale, non sta in uno Stato universale. Molti, più cinicamente, dicono: be’, ma perché vi preoccupate tanto? la soluzione c’è già, è la vecchia soluzione, il più potente è lui lo Stato mondiale. Lo Stato mondiale è l’impero, c’è già l’impero. Siamo d’accordo? Lasciamo fare? O tutto questo non è a sua volta catastrofico? E’ sicuramente garanzia di non democraticità.

Dove sta, dunque, il potere reale? E’ nello Stato. Allora forse questo Stato locale e nazionale non ha finito il suo compito, pur aprendosi a una visione planetaria. Perché, lo Stato italiano può dire “se tu metti la rappresentanza a Milano, ma poi sfrutti il lavoro minorile in Africa, la legge non te lo consente; la mia legge, e i miei Carabinieri vengono a prenderti e ti portano a San Vittore”. Questo è possibile. Questo è un’evoluzione possibile dello Stato democratico. Questo è possibile sfruttando quella forza che ancora le Nazioni hanno e che avranno per lungo tempo. Che cosa desideriamo, in fondo, noi quando parliamo dell’India o della Cina? Che l’India e la Cina rispettino i loro lavoratori così come noi abbiamo imparato - in secoli di guerre, di guerre interiori, di rivoluzione, eccetera – a rispettare i nostri. Ma innanzitutto sono i nostri, come dire, imprenditori che devono rispettare questa legge universale democratica. Siamo noi che dobbiamo chiederci perché dappertutto sparano con le pistole Beretta, tanto per dirne una. Non ci riguarda? Lo Stato italiano non ha niente da dire su questo? Siamo noi che dobbiamo chiederci perché il mercato delle armi nel mondo è il primo nell’ordine di tutti i mercati? Non c’è prodotto che sia così ampiamente scambiato, venduto, circolante sulla Terra, quanto le armi. E su questo non hanno niente da dire i governi? Devono accettare il fatto che si tratta di cartelli internazionali, e quindi come tali estrinseci rispetto alla giurisdizione di ogni Stato? E chi l’ha detto che devono restare così? Per vostra curiosità, il secondo prodotto universale del commercio mondiale sono le medicine. Questo è molto interessante: da un lato t’ammazzo e dall’altro ti avveleno, così siamo sicuri, siamo tranquilli... Adesso tiro un po’ le conclusioni delle provocazioni che ho lanciato. Se non si realizzano i quattro punti di cui ho detto prima, la democrazia è formale ma non sostanziale. Noi viviamo questo disagio. Viviamo certamente degli enormi vantaggi rispetto al passato, credo che non abbiamo molto da rimpiangere del passato. Dobbiamo difendere questi diritti acquisiti, e questo benessere che certamente da noi c’è, chiedendoci se questo benessere è legittimo. Chiedendoci se è legittimo, ed è ben amaro da dire nei confronti dei nostri giovani che non hanno lavoro, che non avranno la pensione, che non si sa come camperanno... E’ molto amaro da dire, ma noi viviamo al di sopra delle nostre possibilità. Su questo non c’è assolutamente dubbio, questi sono i dati che noi ricaviamo non da qualche economista del Terzo Mondo, ma dalle Banche centrali europee, centrali occidentali.

Certamente noi abbiamo motivo di difendere quello che abbiamo, di essere compiaciuti per certe battaglie vinte, di continuare in quella direzione. Ma credo che abbiamo bisogno di due trasformazioni che nascono dal discorso fatto.

Primo: una profonda trasformazione della vita politica democratica, la quale non è più sufficientemente rappresentata, e rappresentativa, nella dinamica media dei partiti. Questo lo sanno tutti i partiti; tutti si chiedono come fare, ma certamente qualcosa bisognerà fare. Bisognerà trovare il modo di aggregare le persone, di coinvolgere la base, non semplicemente in una vita retorica del partito o della politica, ma in una effettiva capacità di dar loro spazio per far sentire la loro voce, incidenza. E io direi: la mossa giusta è smetterla di parlare dei principi e guardare alle conseguenze. Certo i principi sono sacrosanti, e là dove non sono rispettati vanno naturalmente difesi con tutte le forze. Ma qui continuare a parlare di libertà di espressione, quando la libertà di espressione poi è la libertà del postribolo... perché questa è la nostra libertà di espressione, basta guardarsi intorno. Va bene, questa è già garantita dalla Costituzione, per carità. Ma io voglio sapere a quale fine, a quale fine questo spettacolo è stato deciso; questi soldi sono stati spesi; questi libri sono stati stampati... perché no? Perché non dobbiamo avere il diritto di dire la nostra nell’ambito delle cose nelle quali abbiamo effettivamente una competenza, lavoriamo. Perché deve essere la decisione dell’editore a scegliere i libri, e non di quelli che li fanno, materialmente anche. Perché loro sono semplicemente delle macchine al servizio di interessi altri? E il mercato deve essere invaso da stupidaggini, ed è la minore delle cose che possiamo dire. E’ proprio inevitabile questo? Non siamo capaci, non siamo politicamente capaci di affrontare questo problema? Ne abbiamo affrontati ben di peggio nella storia, con sacrifici e pericoli personali allora tremendi. Quindi anzitutto una organizzazione della vita politica dei cittadini, che dia ai cittadini la possibilità del controllo: “tu mi devi dare ragione del perché è scomparso il teatro dalla televisione; del perché sono state chiuse due orchestre Rai. Perché?”. Non basta il trafiletto sul Corriere della Sera dove qualcheduno competente, del ramo, lancia il suo grido di dolore. Se ne fregano tutti di questo grido di dolore. Bisogna dire alle persone: che cosa volete? Volete questo? Benissimo, ma guardate che si può avere anche altro. Non semplicemente vedere certi comici che fanno piangere. Ci si può divertire, si può avere anche uno spettacolo davvero divertente se colui che presiede a queste cose è un competente, è bravo, non ha suo cugino da raccomandare, e così via. Allora un controllo democratico attraverso una ristrutturazione della partecipazione alla vita democratica dei cittadini. Questo è un compito politico, secondo me, che ogni partito deve mettere nell’agenda al punto uno. Come ci riorganizziamo? Invece che il solito gioco... i dirigenti, i quadri... No, cambiamo tutto. Aria! Apriamo le porte e le finestre, che entrino le persone, ascoltiamo cosa dicono, forse hanno più idee di noi. Questo è il primo punto.

Il secondo viene di conseguenza. Questo non basterà mai se non viene messa in discussione la radice economica di tutto ciò. E’ legittimo in una società democratica, in una società che si definisce liberale, e che si definisce liberistica – dove liberistica vuol dire che sul mercato vince il migliore senza protezionismi e senza, come dire, effetti drogati dovuti al potere - è legittimo che una società del genere sia governata da alcune decine di famiglie? Perché, signori, è così. Alcune decine di famiglie governano l’economia mondiale. Ma allora noi siamo ancora nella preistoria? Forse Marx aveva ragione, siamo ancora nella preistoria, siamo ancora al sangue e allo sperma! Siamo ancora quelli lì. Siamo ancora in una società nella quale l’ideale moderno della spiritualità dell’individuo, della persona (come dicono per esempio i cristiani, io sono perfettamente d’accordo su questo), non ha nessun reale peso. Hanno peso i “magnanimi lombi”. Vi rendete conto dell’inganno che ci stanno perpetrando? Ci mostrano la modernità, una modernità che sta dietro alla maschera della mafia. Perché questa è la mafia: il diritto di famiglia, i miei figli che ereditano tutto, e non pagano manco le tasse in Italia. Questa è una società che non realizzerà mai i quattro punti di cui parlavo. Bisogna comprendere che la grande rivoluzione moderna del linguaggio attraverso la scienza, della produzione attraverso l’industria (che è stata la grandezza della modernità) e il denaro, che è come il voto un simbolo puramente astratto, queste grandi rivoluzioni avranno un’efficacia se avremo il coraggio di andare sino in fondo. Non possiamo renderle contemporanee alla mafia delle famiglie, che poi diventano presidenti degli Stati, che poi determinano completamente la politica dei giornali, delle televisioni. No, questo è arcaismo puro. E allora dovremo guardare al denaro come un valore sociale. Il denaro è uno strumento meraviglioso, come la lingua, come la scienza, ma deve essere a beneficio di tutti e non nel senso che viene sottratto... Non è questo. Il suo uso è sociale, la sua legittimità è sociale. Non può essere il mercato finanziario quello che determina i destini dell’umanità.

E andare a toccare queste cose, naturalmente, fa tremare le vene e i polsi.

Carlo Sini

Razionalità, valori, credenze

di Salvatore Natoli

Razionalità, valori, credenze sono tre parole che si intrecciano tra di loro, ma che al giorno d’oggi possono essere formulate come tre dilemmi, devono essere formulate come tre dilemmi. Razionalità: ma quale razionalità? C’è una sola ragione? Ci sono molte ragioni? E, qual è la ragione capace di produrre argomenti veri? E infine: sappiamo che cos’è ragione? E in termini personali ci chiediamo, ci interroghiamo sulle ragioni del nostro agire sino in fondo o ci lasciamo agire? Capite bene che già intorno alla prima parola emergono interrogativi, dilemmi; è tutt’altro che chiara.

La seconda parola è: valori. Direi che è diventato un luogo comune, quasi fastidioso, il dire che c’è una crisi dei valori. Eppure evidentemente c’è in questo luogo comune una verità: la percezione di una perdita di orientamento, l’incertezza nella misura delle scelte. E allora qui si intreccia la prima parola con la seconda. Come argomentiamo i valori, come li sosteniamo, come li assumiamo, come li difendiamo? Anche qui un grappolo di dilemmi.

E la terzo: credenze. Da un lato si dice che siamo in una società ormai secolarizzata, che non crede più a niente, che crede sempre meno. Dall’altro verso è da dire che siamo in una società omologata, e da questo punto di vista l’omologazione non è altro che una forma diffusa di creduleria. Quindi abbiamo persone, credenze per cadere in qualcosa di peggiore, in una sorta di conformismo di massa. Essere performati da meccanismi pubblicitari, da ideologie correnti, diciamo da parole d’ordine: il neoliberalismo, la globalizzazione... Dall’altro abbiamo una, invece, riapparizione conflittuale di credenze, che sono le varie forme identitarie che si sono rafforzate, anziché essere diminuite, nell’età della secolarizzazione, le identità religiose, Islam e Occidente. Ma non solo Islam e Occidente, questa è quella più dominante, ma ce ne sono anche altre, altre forme di identità localistiche, etniche, tribali, e queste identità sono radicate in credenze. E le credenze quando sono vive sono difficili da sdradicare. Neanche la violenza ci riesce, perché in un certo senso rinascono ,e quindi, le mutazioni di mentalità hanno bisogno di processi molto lenti, molto pazienti. Anche qui, come vedete, dilemmi.

Cercherò di analizzare un poco di queste tre dimensioni, il gruppo di problemi che evocano e come stanno insieme, come costituiscono in un certo senso delle interfacce di un unico processo. E una volta identificato il processo cercare di vedere in qualche modo come si risolve, come si può uscire da questi dilemmi, quali soluzioni si possono approntare, o quanto meno quali condizioni favorevoli per le soluzioni si possono produrre.

Razionalità: cos’è la ragione? Partirò leggendo un testo celeberrimo, che è la risposta che Kant diede alla domanda “che cos’è l’Illuminismo?”. “L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dalla condizione di minorità di cui è egli stesso responsabile. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di altri. La responsabilità di tale minorità va attribuita all’uomo stesso quando la sua causa non risiede in una carenza dell’intelletto, ma dipende dalla mancanza di determinazione”. Rileggo, poi commenterò. “La responsabilità di tale minorità va attribuita all’uomo stesso quando la sua causa non risiede in una carenza dell’intelletto, ma dipende dalla mancanza di determinazione e di coraggio nel servirsene compunto senza la guida di altri. Sapere aude, abbi il coraggio di servirti del tuo stesso intelletto”. E’ questo il motto dell’Illuminismo.

Qui c’è la formulazione della ragione moderna, nel suo momento più alto e la cifra di quella che noi chiamiamo razionalità occidentale. Quella razionalità che ha una sua peculiarità, che ha una sua identità, che è occidentale, che noi evidentemente non possiamo esportare, che però ha un suo carattere, una sua dignità. Non possiamo esportarla, certo, ma non possiamo neanche rinunciare a questa razionalità. Perché questa razionalità siamo noi stessi. Questa è corpo, sangue e vita dell’Occidente, e soprattutto della modernità. E soprattutto – ancora un altro tema che meriterebbe un’altra considerazione – di quella che noi oggi chiamiamo la laicità. La laicità è appunto l’intelletto che autorizza se stesso in base a se stesso. Uscire dalla minorità vuol dire non essere soggetti a guida altrui, quindi è l’autodeterminazione. Capite bene che tra ragione, così intesa, e libertà c’è una radicale intimità. L’autodeterminazione, appunto, consiste nell’essere liberi. Ma la libertà c’è nel libero uso dell’intelletto. Cioè l’intelletto, la ragione, espone le sue ragioni e in base a questo agisce, si confronta con le ragioni altrui e le prende sul serio. E non può non prendere sul serio, e non sarebbe ragione se non prendesse sul serio gli argomenti degli altri. Ma alla fine, preso atto di quello che gli altri sostengono, è capace di decidere e di sviluppare una sua azione, essendo titolare di scelta. Questo è il modello dell’uomo occidentale, il tipo d’uomo, il tipo di razionalità. E quindi vale la seconda parte: l’uomo è responsabile di quella minorità, cioè di quella dipendenza, che è da imputare a se stesso. Dunque, non la minorità che nasce dal fatto di una condizione oggettiva di minorità - o del fatto che si è costretti a dire e a subire una violenza -, ma quella minorità che nasce dal fatto che il soggetto non si accorge di essere dipendente, non sente come peso la sua dipendenza. E quindi non cerca e non sviluppa le sue condizioni di libertà, responsabile appunto in quanto pigro. Ecco perché subito dopo Kant dice: “Sapere aude”, la razionalità esige coraggio, esige forza, esige capacità di ribellione e di denuncia e di resistenza. Senza queste caratteristiche, senza il coraggio, non è possibile l’esercizio della ragione. Senza la fortezza non è possibile l’esercizio, la ragione non ha paura. Questo è l’Illuminismo: la ragione non ha paura, la ragione non deve temere. Ecco, questa ragione che è sfida, che è autonomia del soggetto, che è condizione di libertà, nel corso della modernità ha perso questo profilo, quasi impalpabilmente. Ha trovato una sua interna, lenta, degenerazione; è quantomeno cambiamento di obiettivo. Perché questo soggetto che dovrebbe essere, appunto, titolare di se stesso, capace di decisione, questo soggetto - nella storia che va dal Settecento in avanti, chiamiamola nella storia dell’emancipazione - per un verso ha cercato di emanciparsi in modo incondizionato. Vale a dire che questo soggetto ha avuto una pretesa di onnipotenza, dall’autodeterminazione all’idea che si potesse agire senza più vincoli. In questo modo la libertà ha perduto se stessa, perché la libertà senza vincolo non è più libertà. Perché l’idea stessa di scelta suppone il vincolo: se non c’è vincolo non c’è più scelta, e c’è disorientamento, deriva. E noi abbiamo avuto una perdita di libertà per eccesso di libertà. E quindi, stranamente, la titolarietà dell’azione, che nasce dalla libertà, è naufragata sostanzialmente in una totale indeterminazione. Dall’autodeterminazione alla indeterminazione; ecco una patologia della libertà. E infatti oggi noi ci troviamo in una società – soprattutto quella occidentale – che vuole tutto e il contrario di tutto, ed è sempre scontenta; pretende senza decidere e quindi è incapace di volere. Bisognerebbe leggere anche qui dei passi interessanti, molto belli, di Mendelson, sulla differenza che lui fa tra civiltà e rischiaramento; l’Illuminismo come rischiaramento. Per l’altro verso la razionalità ha preso un altro tipo di profilo, cioè la ragione è diventata una razionalità senza fini, una razionalità procedurale. Oggi, spesse volte nella nostra cultura si parla di procedura, anche la democrazia è definita una procedura. E’ difficile avere la democrazia sostanziale, dobbiamo accontentarci della procedurale, perché se perdiamo anche quella e in questo ci sono buone ragioni. In che cosa sta la ragione? Sta nel rapporto tra i mezzi e i fini. Poco importa la bontà del fine. La razionalità sta nella proporzione tra il mezzo e il fine. E’ chiaro che una razionalità di questo tipo è una razionalità tendenzialmente procedurale e strumentale. Razionali sono sempre gli strumenti, mai i fini. E se la razionalità si decide in base alla proporzione tra i mezzi e i fini, be’, l’esito di questa razionalità può essere la cecità. Quindi il fine viene messo tra parentesi, e quello che viene evidenziato è invece il rapporto, la proporzione tra il mezzo e il fine che si è scelto, qualunque questo fine sia. Da qui emergono i modelli tecnocratici della nostra società. La nostra società è una società tecnocratica in cui non è tanto la bontà del fine quanto il raggiungimento del fine che costituisce valore. E allora si è razionali se si è abili a raggiungere il fine, qualunque esso sia, indipendentemente dal suo valore. E quindi questa razionalità è efficace, ma perde gli obiettivi. Noi siamo in una società che ha grandissime performance in termini di efficacia, però ha una incertezza e una indeterminatezza del fine. In fondo, e tornerò nelle conclusioni del mio ragionamento, se voi pensate alla globalizzazione, la globalizzazione entra nel fenomeno di razionalizzazione delle politiche economiche e delle politiche finanziarie, della tecnologia... il grande fenomeno di razionalità tecnocratica. Ma questo è sufficiente per pacificare il mondo? E’ sufficiente per dare al mondo un senso, un destino, una unità? Ecco, allora, dinanzi a una libertà che si è dissipata c’è una razionalità che si è frammentata. E quindi abbiamo uomini che non sanno quel che fare perché non sono titolari di decisione, e ci sono uomini e organizzazione che sanno bene quel che fare, ma non sanno a cosa determinarlo, a cosa destinarlo. E quindi la decisione della razionalità è tutta su tempi brevi, su situazioni immediate, è come se uno traslocasse costantemente per trovare pace. Allora l’abilità della prestazione di per sé non assicura la bontà della destinazione.

E allora è chiaro che, a questo punto, c’è l’istanza o il bisogno mai tramontato di una diversa razionalità, quella che gli antichi chiamavano “la prassi”. Aristotele distingueva tra la “prassi” e la “tecnica”. La tecnica ha fini limitati e si esaurisce nel raggiungimento di quegli obiettivi. Se io devo fare un buon tavolo, devo avere una buona tecnica, ma questa tecnica non mi serve più quando io ho fatto quel tavolo. Mi servirà per un altro tavolo. Ecco, la tecnica è quella procedura di competenza, la cui funzione si esaurisce con la realizzazione dell’oggetto. La prassi, invece, è il senso che noi diamo al nostro agire. Il senso che diamo alla nostra vita. Allora, ogni tecnica prende significato dentro una prassi; se non c’è una prassi che orienta le tecniche noi abbiamo procedure efficaci, ma insensate. Cos’è la prassi? La prassi è il significato che dò io al mio essere nel mondo, e quindi anche il significato che io dò al mondo. E’ il valore. Ecco, l’azione deve essere orientata a valori. Se non è orientata a valori è, appunto, insensata.

E noi siamo in una crisi di valori. Cosa vuol dire che noi siamo in una crisi di valori? Ci sono stati dei grandi pensatori che hanno riflettuto su questo. Carl Schmitt ad esempio dice che la nozione di valore è una nozione critica in se stessa. Non è necessario parlare di crisi dei valori, perché i valori di per sé sono crisi. Perché i valori sono crisi? Perché il valore dipende dal soggetto che valuta. Quel soggetto che abbiamo visto essere libero, che sceglie un fine e lo valuta. Ma i soggetti sono tanti, le comunità sono tante. E quindi ogni valore, in quanto è scelto da qualcuno, non può essere di per sé un valore cogente per tutti. E quindi di per sé il valore, in quanto dipende da una valutazione, è costantemente critico. Non a caso l’origine dalla parola “valori” viene dall’economia. E cosa si fa in economia? Si scambiano i valori, come si scambiano i beni. E così nella vita collettiva, nella vita etica, nelle scelte i valori si scambiano. E quindi non c’è quella componente forte, cogente, universale. Allora in una società a bassa trasformazione i valori erano stabili perché la società era stabile. In una società ad alta mobilità i valori diventano labili perché la società è ad alta mobilità. Questa è la ragione della crisi dei valori. Cioè le comunità e i soggetti oggi sono in condizioni di mobilità e di indeterminazione tale che i valori diventano sempre più provvisori, e quindi come tali sempre più fungibili, sempre più scambiati, fino ad una sensazione di inconsistenza. Cioè non c’è più nulla di stabile. Ecco, il valore ha sostituito l’idea del bene. Perché la caratteristica del bene è, appunto, che il bene è oggettivo. Il bene è oggettivo. Quando c’è stata la soggettivazione del bene c’è stata l’emancipazione degli individui, ma c’è stata anche questa irruzione della provvisorietà nelle esistenze. La dimensione è ambigua, la dimensione è ambigua perché l’emancipazione è stata certamente un grande vantaggio per il soggetto, però se questa emancipazione ha dissolto il bene: su cosa si regge? E nello stesso tempo c’erano idee troppo rozze, troppo monovalenti, troppo univoche del bene, che asservivano. C’era una nozione di bene che produceva solo obbedienza e non scelta. Ecco allora forse era anche giusto che questa dimensione monolitica del bene si dissolvesse, perché creava soltanto obbedienza e non libertà. E quindi nella storia, in genere, siamo sempre dinanzi a processi di ambiguità, e dobbiamo stare attenti a questo. Perché se si perde una cosa se ne guadagna un’altra, se se ne guadagna un’altra si perde la prima. Noi dovremmo cercare – attraverso una operazione critica – di mantenere il buono di quello che noi abbiamo superato, e quindi nella crisi dei valori è ritornata oggi come bisogno collettivo l’istanza del bene. Nella forma negativa gli uomini ne sentono la mancanza, non sanno in che consiste, ma ne sentono la mancanza, lo desiderano. Di nuovo riemerge il bisogno del bene. Si tratta di vedere come possiamo costruire questo bene come obiettivo comune per la realizzazione delle vite individuali e delle vite collettive. Valori e scelte: siamo nella condizione di dire che noi agiamo in modo tale che le nostre scelte sono conformi a valori, oppure dobbiamo dire che i valori sono obiettivi selezionati dalle nostre scelte? Quando noi agiamo, agiamo in conformità a valori, oppure i valori sono il frutto selezionato dalle nostre scelte? Qual è il peso dominante? Quello della soggettività tendente all’arbitrarietà o quello della oggettività tendente alla dogmaticità, al comando? Questa è la condizione in cui noi ci troviamo. In ogni caso, proprio in rapporto alla tematica che sto evidenziando – senso e valore – noi ci troviamo oggi a una coesistenza di mondi. Cosa voglio dire? Quell’uomo occidentale che ho indicato, quel tipo di razionalità che ho indicato, il rapporto con i valori che ho indicato, fa parte di quella che in senso lato chiamo “la società degli individui”. Se la libertà sta nella titolarità della scelta; se il valore, per quanto discusso, è un valore selezionato dai soggetti e mediato socialmente (si mediano i valori) noi siamo in una società che è quella degli individui. Cioè in una società in cui gli individui tendono sostanzialmente a pensarsi isolatamente e ognuno cerca di perseguire la sua propria felicità e si accordano su uno spazio neutro onde evitare di darsi fastidio a vicenda. Quindi noi siamo nella società dell’individuo e, fondamentalmente, una mediazione costruita sulla indifferenza dei soggetti gli uni agli altri. Possiamo rinunciare alla centralità dell’individuo? No! se questo vuol dire libertà. Ma qual è il costo della centralità di questo individuo? E’ sostanzialmente una forma di neutralità sociale. E questa è la contraddizione tipica del nostro presente, quando si parla “più Stato”, “meno Stato”... tutte questa parole d’ordine che corrono, cosa vogliono significare? Che gli individui costruiscono ognuno per suo conto la propria felicità. E nella relazione sociale? Nella relazione sociale bisogna fare in modo che queste diverse storie, queste diverse vicende personali non ostacolino l’uno con l’altro.

C’è un progetto di vita collettivo in questo? No! Infatti noi ci troviamo oggi in una situazione di terribile atomismo sociale. Le garanzie che si chiedono sono tutte garanzie di tipo istituzionale, ma perché? Perché c’è un deficit di relazione personale. Ma se c’è un deficit di relazione personale, anche le prestazioni istituzionali tendono ad inaridirsi. Detto in soldoni: se uno fa il mestiere solo per mestiere, non ha quella umanità sufficiente per risolvere un bisogno. Se un infermiere fa l’infermiere solo per mestiere, ma non c’è una relazione umana, farà male l’infermiere. La logica della prestazione non è sufficiente per la vita della relazione, e allora l’individualismo, la società degli individui – tutto sommato – produce grandi ricchezze singolari, ma accumula grandi povertà sociali. Come direbbe Nietzsche: “Intorno a noi cresce il deserto, grandi solitudini”.

Bisogna allora necessariamente riconiugare l’individualità con la comunità. E infatti, siamo dinanzi a mondi coesistenti, in altre società - più arcaiche delle nostre, noi le chiamiamo arcaiche - vediamo che prevale invece una logica di comunità. Una logica di comunità in cui i soggetti esistono in quanto si pensano e si vivono in funzione della comunità.

Qual è il deficit di queste società? E’ forse un deficit di libertà. Un deficit di libertà, perché? Perché gli individui non si pensano nella forma dell’autonomia, però non possiamo dire di queste comunità che i soggetti si pensino in condizioni di minorità. La formula di Kant era: in condizioni di minorità. Ma chi in una comunità vive se stesso in ragione della comunità stessa, si sente in condizione di minorità oppure vive attivamente questa sua condizione dando un contributo? Nelle vecchie famiglie, nelle grandi famiglie claniche non c’era solo una relazione di soggezione e obbedienza rispetto alla comunità, ma c’era una partecipazione fisiologica alla riproduzione di quella comunità stessa perché ci si sentiva attivamente parte. Quindi se le comunità hanno effetti di costruzione sui soggetti (e li hanno avuti), hanno anche effetti di partecipazione attiva e di collaborazione, ecco. Le comunità – molte volte – costringono i soggetti dentro il loro schema e quindi non li lasciano liberi per il mondo.

Noi oggi abbiamo società a forte stampo comunitario e abbiamo una società degli individui. E se ci riflettete: la società degli individui è molto più piccola delle società strutturate secondo comunità. Questa è una cosa a cui spesso non si pensa per eccesso di eurocentrismo o di cultura dell’Occidente. Se voi guardate i numeri e le persone gli spazi islamici, orientali... la stessa Cina, che pure si sta, come dire, occidentalizzando nei modelli industriali, ha ancora un impianto forte di comunità, con caratteristi addirittura negative, cioè coercitive, violente.
Ci troviamo così dinanzi a problemi paradossali. Per farvi capire il paradosso – perché di paradosso si tratta, ma anche di difficoltà di convergenza tra le culture – pensate all’idea della pena di morte che abbiamo noi (lasciamo stare gli Stati Uniti), nella società europea c’è il rifiuto della pena di morte. Perché? Perché è fondamentale la inviolabilità del singolo, la dignità dell’individuo nella sua assoluta singolarità. E la pena di morte, in Cina, o in Paesi di quel genere dove la gente viene ammazzata mentre gli altri stanno al mercato, senza reazione. Perché? Perché lì il soggetto vive in funzione della comunità, e se ha violato la comunità ha violato se stesso, c’è una inversione della dignità. Da noi il massimo della dignità alla soggettività, e lì è indegno chi non ha rispettato la comunità. Ma loro vivono questa indegnità dell’indegno con la stessa naturalezza con cui noi viviamo la dignità del singolo.

Quando si parla di incontro e scontro tra culture, ci si trova dinanzi a questo diverso – ed ecco, uso le parole – “orizzonte di credenze”. Quindi noi siamo in un mondo in cui domina la società degli individui nella forma positiva della dignità, nella forma negativa dell’arbitrio; e società in cui domina fortemente, ancora, una logica comunitaria. Ma nella stessa cultura occidentale esistono delle correnti di pensiero, ma non solo delle correnti di pensiero, ma proprio delle vere e proprie organizzazioni sociali in cui riemerge il bisogno di comunità. A fronte di queste solitudini, di queste dispersioni, riemerge il bisogno di comunità. Prendete, per esempio, le diffusissime pratiche di volontariato.

Nella società delle solitudini emerge il volontariato, che è un segno positivo, e, nello stesso tempo, un segno negativo. Perché? Si fa il volontariato perché gli uomini non si vogliono bene spontaneamente, allora ci devono essere quelli che quasi per professione si dedicano al voler bene, mentre gli altri continuano a fare i fatti propri. Allora da questo punto di vista il volontariato è il segno di una patologia. Dall’altro lato però è il segno di una positività perché esprime un bisogno che nonostante tutto richiede di essere soddisfatto. E allora ci sono alcuni gruppi sociali che lo interpretano. Quindi vedete che nella società degli individui, e delle solitudini, emergono istanze di solidarietà. Non solo, emergono anche istanze di senso, perché le comunità, in genere, sono prodotte o permeate da credenze: è difficile trovare delle comunità che non abbiamo credenze, cioè non abbiano visioni del mondo. Le comunità sono sempre vincolate da un’idea di mondo e di esistenza. Non a caso, se voi vedete le pratiche di volontariato, in generale, per esempio, dell’Occidente, hanno la loro matrice nelle chiese. Perché nelle chiese c’è – bene o male – una istanza di solidarietà. Perché le chiese sono credenze, è un modo di sentirsi insieme. Le religioni hanno questa funzione attiva, e la caratteristica fondamentale è che ci sono valori che provengono da una credenza, ma hanno anche caratteri fortissimi di diffidenza. Infatti voi vedete che queste comunità di volontariato si ispirano al Cristianesimo, ma non sono chiesastiche, molte volte sono antigerarchiche, si parla di preti di strada. C’è una radice religiosa come idea di credenza, di bene collettivo, ma non sposa insieme alla credenza l’obbedienza. E quindi sono dinamiche singolari di bisogno comunitario, ma anche in un certo modo libertario. Si parla, appunto, spesse volte, come fa oggi la sociologia, (ma anche in tempi molto lontani già dal Seicento) si parla di cristiani senza Chiesa, credenti senza Chiesa, dove la simbolica religiosa motiva intenzioni e azioni, ma non è conforme a una logica dogmatica autoritaria. E quindi non dobbiamo dimenticare la produzione di senso che nasce dalle religioni.

La maggior parte del mondo è a struttura comunitaria, ancora, e nella società degli individui dinanzi alle derive individualiste riemerge di nuovo un bisogno di comunità. Diciamo che ci sono altre forme non di radice fondamentalmente religiosa, ma in senso lato possiamo dire di radice genericamente umanitaria o ecologica, anche questo è un sistema di credenze. Tutti i movimenti new age, per esempio, tutti i movimenti incentrati su una economia del dono contro l’economia dello scambi. Qui non abbiamo una radice specificatamente religiosa, ma abbiamo una dimensione relazionale umanitaria, all’origine delle relazioni umane non sta lo scambio, sta il dono. E quindi abbiamo movimenti e politiche costruite così, e anche forme di organizzazioni economiche improntate a questo modello, per esempio il commercio equo solidale, e altri fenomeni paraistituzionali che cercano di interrompere e di intercettare l’economia di mercato, e il puro potere finanziario, immettendo nelle relazioni umane caratteristiche qualitative, e non solo quantitative. Perché nel dono tu devi riconoscere l’altro, nello scambio puoi perfettamente farne a meno. Il dono si basa fondamentalmente sulla reciprocità e sul riconoscimento, altrimenti non c’è dono. Lo scambio può essere uno scambio tra oggetti in cui i soggetti non si guardano neanche in faccia. Allora ecco che emergono nelle nostre società, e già nelle nostre società ci sono componenti quasi fisiologiche, antidoti naturali alla dissociazione dell’atomismo sociale.
Non bisogna solo guardare le lacerazioni, ma anche i germogli, perché in fondo la vita si aggiusta da sé, è sempre stato così nella storia del mondo. Perfino Leopardi, che era un pessimista, la pensava così: la vita poi ha la possibilità, dinanzi a ciò che la rompe, di riprodurre se stessa. E allora noi dobbiamo fecondare questi germogli, intuirli e muoverci lungo quella lunghezza d’onda.

Ma questo che cosa suppone? Suppone perlomeno una capacità di analisi. Perché senza una capacità di analisi si è nella confusione e non si vede la tendenza positiva, non si ha la percezione degli effetti disgregativi che nella società solitaria, della libertà senza destino, produce la catastrofe nel mondo.

Le credenze sono appunto comunitarie, è impossibile che ci sia una credenza solamente individuale. Ci sono sistemi di credenza fortemente strutturati e ci sono sistemi di credenze bassamente strutturati. E allora, tornando all’esempio di prima, nell’Occidente, la società degli individui che vuole creare comunità, che ha bisogno di comunità, per costruire comunità ha bisogno di simboli. Le comunità si reggono su scambi simbolici, non solo su scambi materiali, il sentirsi insieme perché c’è qualcosa che accomuna. Allora noi troviamo meccanismi strani e sincretismi: abbiamo un Cristianesimo che è anche un po’ buddista, un Buddismo che è un po’ Cristianesimo, un po’ di yoga e un po’ di preghiera. Cioè ci troviamo dinanzi a situazioni in cui i grandi simboli della tradizione vengono ripresi, abbiamo soprattutto gruppi giovanili in questo senso, ma non solo giovanili, che intorno a questi simboli base, combinati insieme strutturano credenze. Ma da questa credenza entrano ed escono, e non hanno forti codici gerarchici. E quindi sostanzialmente uno diventa il papa di se stesso, ecco quindi ha questa possibilità di manipolazione dei singoli. Tranne in esiti particolari, e ci sono, ma questo lo dovrebbe studiare la psicologia sociale e la sociologia in generale, ci possono essere in questi contesti esiti settari. Cioè il guru del gruppo che diventa il padrone del gruppo. E noi vediamo in questi fenomeni di strutture - né organizzate, comunitarie - della società, fenomeni di libertà, cioè di gente che sta insieme perché non c’è un simbolo comune, ma anche di persone che poi approfittano, anche qui, della debolezza degli adepti. Perché molte volte quelli che aderiscono a queste comunità sono i soggetti deboli della società, proprio perché dispersi, meno difesi, aderiscono. E allora sul soggetto debole il guru impera. Sul soggetto robusto invece c’è scambio di interpretazione e di relazione. Quindi anche questi fenomeni: un bisogno, ma anche una povertà.
Invece fuori dallo spazio dell’Occidente abbiamo questi luoghi di grandi credenze solide, ancora non dissolte. L’Islam, è uno spazio esemplare di questo. Ma non solo l’Islam. Qui c’è una dimensione fortissima di credenze, però sono così solide come noi le immaginiamo? E qui c’è da fare un’ulteriore riflessione: la credenza si combina con una appartenenza. Tra credere e appartenere c’è una coesistenza, chi crede appartiene a qualcosa. Si dice “ha una fede”, che non è sua, appartiene, è cresciuto lì dentro.

Mentre le nostre comunità occidentali sono pullulanti degli interstizi della nostra società, quelle al di fuori dell’Occidente esistono come grande dimensione di spazio, cioè sono allocazioni forti in spazi, non sono efflorescenze dentro i vuoti. Mentre la comunità da noi è efflorescenza dentro i vuoti, dentro gli interstizi, i buchi della società, questi altri sono universi di credenze solidi e territoriali. Quindi non solo credenze come comunità, organizzazione e mentalità, ma spazi.

Che cosa succede allora? Succede che in un processo di globalizzazione è accaduto qualcosa di irreversibile e questa volta davvero di unico: il processo di globalizzazione ha compresso gli spazi, ha avvicinato gli spazi, li ha mentalmente (fisicamente non poteva) sovrapposti. Perché, il capitale finanziario, i mass media, hanno sovrapposto il mondo, cioè hanno creato contemporaneità. E a questo non sfugge nessuno. Il mondo oggi è, in senso stretto, uno spazio unico. Questo vuol dire globalizzazione. Lo è dal punto di vista della ricchezza, perché ormai i flussi finanziari sono tali che sono contemporanei. Oggi centinaia di migliaia di dollari e di euro, ecc., ecc., si spostano con un click, non c’è bisogno dello spostamento materiale della ricchezza. Un’azienda si chiude con un click se non rende più nella dislocazione mondiale. Tutto è contemporaneo, ma anche gli spazi-mondo sono contemporanei perché i media portano tutto a casa. Oggi si è nel mondo, sia pure in modo distorto, stando seduti a casa dinanzi alla televisione. Ma ci stiamo noi come ci stanno gli Islamici, come ci stanno i Cinesi, cioè gli spazi-mondo sono sovrapposti e sono contemporanei. Quindi la globalizzazione ha avvicinato le credenze, ma nel momento in cui le ha avvicinate ha fallito terribilmente la tensione. Perché lo spazio faceva distanza, per scontrarsi bisognava andarci. Oggi non è necessario andarci, perché? Perché ci si scontra subito, cioè le mentalità entrano in conflitto: due modi di essere, di agire. Una logica comunitaria e una logica individualista, come stanno insieme? Eppure stanno insieme, perché quando l’uomo occidentale – che è l’uomo della libertà, che è l’uomo della dignità dell’individuo – si trova dinanzi a quelli che muoiono e si ammazzano, qui c’è un conflitto reale di mentalità, non ci si capisce: “Come è possibile che quello faccia questo?”.

Questo elemento della contemporaneità ha prodotto una accumulazione di tensione delle società, ha indotto instabilità. E quindi anche quelle stesse credenze, quelle stesse società della credenza a strutturazione forte – di cui ho parlato prima – attraverso questa sovrapposizione esse stesse si sono problematizzate. Cioè a dire sono state destrutturate dalle immagini che ricevono e si sono poste il problema: ma è giusta la nostra vita o quella? E’ giusto tenere ancora il burka o fare la velina? Una ragazza islamica si pone questo tipo di problema, e poi giudica. Meno l’occidentale, perché? Perché siamo a una strutturazione di società a credenza labile. Ed essendoci una credenza labile la velina suscita, crea gli scrupoli, mentre gli altri, appartenendo a una credenza stabile, hanno crisi di coscienza. Questa è la differenza tra l’appartenenza a una credenza stabile e l’appartenenza a una credenza labile. Questa è la dimensione in cui noi ci troviamo: la sovrapposizione ha accumulato tensione perché gli spazi si sono sovrapposti, o meglio questa contemporaneità ha creato dinamiche conflittuali nella società.
Questo che conseguenze ha avuto? Ne ha avute fondamentalmente due, che sono speculari l’una all’altra. Una prima, diciamo in senso lato, di secolarizzazione. Una secolarizzazione che c’era stata già nell’Occidente. La modernità, appunto, a partire da Kant, è un processo costante di secolarizzazione, cioè di emancipazione dal codice religioso, dai codici morali, dai codici etici. Così, per capirci, basti pensare a quello che è successo nella generazione del ’68, che politicamente ha perso, o quantomeno non ha vinto, però i vecchi codici etici sono saltati... le relazioni sessuali, la vita famigliare. Ora, molte volte le società cambiano di più per queste ragioni che per i mutamenti del ceto politico. Tanto è vero che rispetto a quel mutamento il ceto politico è rimasto indietro, tant’è che è crollato. E’ crollato perché non ha capito quel tipo di mutamenti. Non ha capito il tipo di mutamento nel sistema dei bisogni che c’era nella società. C’è stata una secolarizzazione nella storia occidentale. Questo lo dico come un esempio flash dove si può capire cosa vuol dire rompere un codice morale.

I processi di secolarizzazione avvengono anche in quei mondi, perché con la sovrapposizione questi dicono, appunto: “ma l’Occidente è meglio di noi? noi siamo migliori?”. Sorge questo tipo di problema. Adesso la situazione è abbastanza cambiata. In quest’ultimo decennio c’è stato un momento in cui l’Occidente era attraente, perché tutto sommato si vedeva lo scintillio dell’Occidente. E non si vedeva, invece, l’aspetto drammatico dell’Occidente, irrisolto dell’Occidente. Questi da fuori immaginavano l’Occidente così come veniva presentato con le sue paillette, ma quando sono venuti qui si sono accorti che non c’erano le paillette, cioè quel tipo di società non era normale per tutti. E allora venendo qui hanno scoperto due cose insieme: che non hanno ottenuto quello per cui erano venuti, da un lato e dall’altro che alcune cose, che avevano abbandonato, erano importanti.

Le banlieue parigine possono essere lette soltanto così perché lì rinasce l’Islam: “Non siamo stati inclusi nell’Occidente e siamo venuti per questo, e abbiamo scoperto che non solo non ci ha inclusi, ma alcune cose nostre è importante riprenderle”. E’ lo stesso Islam che c’è là? No. Perché i grandi passaggi della storia non si cancellano, però una cosa è: la reinvenzione della propria identità. Ecco perché i processi di secolarizzazione producono fondamentalismo. Il fondamentalismo è l’altra faccia della secolarizzazione, perché non ci si difende mai se non ci si sente attaccati. Quindi non è che l’Islam sia per natura fondamentalista, in questo si sbaglia quando parla di conflitto di civiltà. La cultura islamica non è fondamentalista per costituzione: il fondamentalismo nasce di fronte ai fenomeni di secolarizzazione. E può diventare integralismo e poi può anche occasionare il terrorismo, ma il terrorismo ha un altro tipo di radice. Non è automatico che il terrorismo nasca dal fondamentalismo, perché c’è il trasferimento della credenza in un codice politico che fa cambiare natura. Ecco, un altro errore fondamentale è di confondere o di creare il nesso di continuità tra fondamentalismo e terrorismo. Ecco, allora a fronte della secolarizzazione: fenomeni di fondamentalismo.

Ma questo fenomeno di fondamentalismo noi non l’abbiamo registrato anche nell’Occidente? Cosa è stato Lefèvre rispetto al Concilio? Tutto sommato cosa sono stati - letti in questa chiave - questi due pontificati se non una riaffermazione identitaria, in cui Wojtyla diceva: “Non abbiate paura”, ma aveva paura? Anche se il pontificato di Giovanni Paolo II è un pontificato drammatico, ha molte facce. Certamente c’è questa faccia della Chiesa che si riafferma come unica agenzia salvifica, ma perché lo fa? E un meccanismo autocratico? No. E’ anche davvero un bisogno rispetto a una società che non ha più valori. Si trova, dunque, ad occupare uno spazio che è nato dalla disgregazione di orientamento che c’è nella società con una caratteristica opposta al volontariato, poichè ha dinamiche identitarie di grande organizzazione, di grande macchina organizzativa, su simboliche religiose: Comunione e Liberazione, che è un grande fenomeno identitario, offre valori, soprattutto ai giovani. E lo offre in modo singolare. Lo offre in un modo in cui mentre proclama l’identità è connivente con il mondo della secolarità: l’etica sessuale che praticano quelli di Comunione e Liberazione non è quella che c’è nei discorsi di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, sono molto concessivi nella pratica, molto a settori nell’identità. E questo è molto importante, perché tu puoi fare come fa il mondo sentendoti crema del mondo. Cosa di più bello? E’ questo un elemento di forza, di essere dentro/fuori, ma anche nella politica fanno lo stesso.

Questa sovrapposizione genera nella società secolarizzazione e insieme fondamentalismo, e quindi accumula terribilmente tensioni. E quindi ci troviamo in una situazione equivoca: come ne usciamo, con quale razionalità? Ecco, con quale razionalità noi possiamo muoverci dentro queste contraddizioni? La tolleranza? Sì, ma la tolleranza non basta perché produce neutralizzazione dal conflitto, ma non ne impedisce la germinazione. Integrazione? Integrazione sì, che però non sia assimilazione. Perché l’assimilazione cancella le identità e vince l’identità dominante. L’integrazione cerca di fare coesistere differenze. Ora, se ci pensate bene la storia delle religioni- di tutte le religioni – è sempre stata meno rigida di quanto non si pensi. La storia del Cristianesimo è una mutazione continua, si sono incontrati con i Greci e si sono ellenizzati; sono andati presso altre popolazioni, pensiamo alle Chiese latino-americane, anche lì hanno cambiato. Ma questo vale anche per l’Islam. Quanti Islam esistono? Tantissimi Islam, non solo gli Sciiti e i Sunniti, esiste un Islam a base cranica, esiste un Islam spirituale-mistico iranico con il sofismo. Ecco dunque la storia delle religioni storicamente è mobile, quindi queste credenze non sono poi così rigide. Certo che però essendo forti questi canoni non cambiano, ci vuole la lenta modulazione del tempo. Noi siamo in una situazione di difficoltà perché queste cose sono lente a cambiare, mentre la sovrapposizione degli spazi rende necessario che cambino presto, e quindi da qui lo scontro. Una mentalità per mutare ha bisogno di tempo, ma la coesistenza non ha tempo. E quindi ci sono fenomeni di antagonismo. Allora ci deve essere una lunga politica, una condotta politica, uno stile che intenda il più possibile vedere quanto tra queste diverse forme di vita (perché le credenze sono forme di vita) è conciliabile. Quali sono le possibili affinità che in questo diverso universo di credenze, che ormai in modo irreversibile si affacciano l’una sull’altra in modo irreversibile, quali sono gli elementi che possono permettere una qualche affinità. Per usare la formula di un teologo che si è interessato molto di questi problemi, che è Hans Küng, il cibo è un ethos mondiale.

Direi che c’è una linea che ci può permettere di immaginare una società che abbia un ethos comune, sottolineo la parola “immaginare”, non è una cosa che possiamo fare subito. Vi è, un principio, una legge che si trova in tutte le culture, in tutte le religioni e in tutte le società, stranamente c’è questa familiarità, non è il diritto naturale, è una familiarità, cioè una sorta di corrispondenza, dalle Tavole di Hammurabi alle nostre società, è nella regola aurea: Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. Se noi vediamo tutte le forme di vita sociale organizzate, bene o male questa formula ritorna. E’ come se ritornassero alcune idee fondamentali, associate direttamente a questa, primarie. Prima: Non uccidere. Seconda: Non mentire. Terza: Non rubare. Quarta: Non abusare della sessualità. Più o meno la regola aurea si scandisce nelle indicazioni delle varie forme del nuocere, perché in effetti l’uccidere, il mentire, il rubare, l’abusare sessualmente sono forme del nuocere. Allora se la regola aurea dice “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, ecco ci sono delle indicazioni primarie dell’uomo che gli uomini di tutte le culture hanno ritenuto che non si dovesse fare.
Che cosa vuol dire “non uccidere”? Questo è un divieto negativo. Ma ce ne può essere uno positivo, possiamo pensarlo positivamente, e se noi lo pensiamo positivamente lo possiamo allargare. Perché un termine negativo esclude, la versione positiva dilata. Se io invece di dire “non uccidere” trasformo questa formula in “rispetta ogni vita” allora capite bene che uccidere non vuol dire solo ammazzare, ma vuol dire non permettere di crescere bene, di svilupparsi in tutte le proprie dimensioni fisiche e mentali. “Non uccidere” messo al positivo, cioè “rispetta ogni vita” vuol dire farla crescere al massimo delle sue possibilità. A questo punto tutti insieme, nelle varie credenze, in modo questa volta laico cerchiamo di vedere cosa vuol dire “possibilità di vita”, di interrogarci non soltanto in base ai vecchi canoni, ma in base alle condizioni del mondo in cui ci troviamo. Cosa vuol dire rispettare oggi, in questo mondo, il non uccidere, cioè il far vivere? Su questo le credenze diverse possono reciprocamente problematizzarsi, e ognuno a suo modo può portare un contributo all’altro e di rettifica a sé, perché non è possibile un contributo all’altro senza una rettifica di sé, e quindi una revisione sulla base proprio di uno schema primordiale, senza cose nuove, riprendendo in un certo senso l’origine. Riprendendo l’origine ripensandola.

“Non mentire”, cosa vuol dire? Mettiamolo in positivo: agire con sincerità, non fregare un altro, non perpetrare il tradimento, avere un rapporto di lealtà, non ingannare. Questo vuol dire “non mentire”. “Non rubare” cosa vuol dire? Vuol dire non sfruttare, non appropriarsi del lavoro degli altri, distribuire in modo equo le ricchezze; questo vuol dire “non rubare”.

“Non abusare sessualmente”, che cosa vuol dire? Amarsi liberamente, non impossessarsi dell’altro, ma aprirsi all’altro in un reciproco beneficio di donazione, questo vuol dire.

Lavorando su queste strutture di base - che l’umanità in diversi posti del mondo ha sin dall’origine percepito – potremo cominciare a rivedere e scoprire che, rispetto a queste cose importanti, ci sono delle cose rituali che sono meno importanti, e anzi uno può essere un punto di vista illuminante sull’altro, nel senso di fare capire che in effetti un certo tipo di rito o di credenza in fondo nulla toglie, nulla aggiunge, anzi, in taluni casi complica, fa regredire questo generale processo dell’umanità. E allora è chiaro che qui ci vuole una reciproca comprensione, cioè entrare nelle storie degli altri.

Come dice Kant, ci vuole impegno per questo. Impegno e coraggio, la razionalità. Perché senza l’impegno e il coraggio, sapere aude. Cosa vuol dire sapere aude? Non avere frontiere nella conoscenza. Non è la concezione sapere aude in senso tecnocratico, monovalente. Sapere aude vuol dire non avere paura dell’altro, osa sempre, non porti confini. Ma non porti confini non nel senso della tua onnipotenza, non porti confini nel senso della tua accoglienza. Noi abbiamo una mentalità soggettiva e diciamo non porre confini alla nostra onnipotenza, non porre confini alla nostra accoglienza, la passività è una virtù. In una cultura attivistica noi abbiamo perso la nozione di passività. E consentitemi una lettura laica del Vangelo. Io sono abituato a fare le letture laiche del Vangelo... In fondo, l’annuncio alla Madonna qual è? Un paradosso: tu diventerai madre. Qual è la risposta? “Ecce ancilla dei”. Ecco la serva del Signore. Lasciamo stare l’orizzonte religioso, mettiamoci a servizio e nascerà Dio; l’umanità diventerà divina se sarà capace di accogliere della reciprocità la totalità dell’alterità.

E allora il futuro dell’umanità può essere liberalizzazione. Liberalizzazione non è una composizione per parti, non è la tolleranza, non è neanche l’integrazione. Liberalizzazione sarà la nuova umanità che si selezionerà da sola in ragione del semplice vivere insieme. Come sarà questa umanità? Noi non la vedremo, perché non la possiamo produrre per composizione e dedurre per astrazione: nascerà perché stando insieme ceppi diversi appariranno e il lussureggiare dell’ibrido è l’unica salvezza dell’umanità.

Salvatore Natoli