di Antonio Lieto
Un antico detto popolare dice “l’abito non fa il monaco”. Altri tempi, verrebbe da dire. Nella società dell’immagine l’abito fa il monaco. Eccome. In una società in cui tutti sembriamo sbattuti da una parte all’altra come le palline di un flipper impazzito sembra non esserci più il tempo (e, forse, la capacità) di guardare al di là della “buccia”. Di fare delle scelte che vadano al di là dell’apparenza immediata, superficiale. Insomma al di là dell’abito.
I primi ad essersene accorti sono stati i pubblicitari. Che subito hanno adeguato il loro modo di comunicare al nuovo trend sociale passando da una pubblicità “spiegata” ad una pubblicità d’impatto.
All’epoca della pubblicità “spiegata” la parte centrale del messaggio era costituita dal body copy (cioè da quella parte del messaggio in cui si danno informazioni tecniche relative ad un dato marchio o prodotto). Tutto ruotava intorno all’elemento informativo. Era importante “spiegare” appunto.
Nell’era della pubblicità d’impatto, invece, quella in cui viviamo oggi, a farla da padrone è il visual ossia l’immagine, l’elemento grafico-estetico di un prodotto o di un marchio.
Provate a sfogliare qualche rivista o a fare un po’ di zapping. Vedrete come le pubblicità non spiegano più niente. Si punta sull’impatto immediato. Sulla potenza evocativa ed emotiva dell’immagine che, come si dice, “parla da sé”. Non ha bisogno di essere spiegata.
Nella società della advertising ad impatto, i pubblicitari, pensandone una più del diavolo (che, a quanto pare, veste Prada, ascolta i Queen e magari beve anche Martini), hanno introdotto nel loro armamentario comunicativo un nuovo elemento di cui potersi avvalere per sedurre i consumatori: il “confezionamento” del prodotto, il packaging. Anch’esso, infatti, può veicolare emozioni, sens-azioni.
Un esempio? Pensiamo alla confezione di un prodotto qualsiasi che sia: gradevole al tatto, bella da vedere e profumata. Ed ecco veicolato alla perfezione, tramite packaging, un messaggio seduttivo e polisensoriale.
Il fatto è che, spesso, scartata la confezione, il valore reale del prodotto non sembra essere all’altezza delle nostre aspettative. Insomma ci accorgiamo che “ci hanno fatto il pac...kaging”. Ma con chi prendersela se non con noi stessi e con le nostre bislacche modalità di scelta?
Non è solo la realtà commerciale, però, ad essersi accorta di questo trend sociale legato all’importanza attribuita, in fase di scelta, ad indici periferici, secondari, non attinenti direttamente al contenuto. Da qualche tempo a questa parte anche i politici, o meglio gli staff di cui si servono, se ne sono accorti. E anch’essi, sempre più, basano la loro comunicazione sul “packaging” (se consideriamo tale termine non nella sua accezione specifica ma in quella più generale di “elemento superficiale”, di “buccia”, di “abito” insomma).
Sempre più i vari guru della comunicazione, che fanno da consulenti per i leaders politici del globo, puntano sull’importanza dell’immagine dei leaders (sia quella fisica vera e propria sia quella relativa alla costruzione della loro reputazione pubblica). Sempre di più il contenitore diventa più importante del contenuto. Il modo in cui si dicono le cose diventa più importante delle cose dette. Il packaging diventa più importante del messaggio veicolato. Per cui, in questa logica, si punta a far votare questo o quel leader non tanto per i suoi reali progetti politici ma, piuttosto, per il modo in cui li “vende”, li propone (le battute umoristiche sono uno degli strumenti più gettonati nella nuova politica-spettacolo: sembra che tutti vogliano dire barzellette, specie in periodo elettorale). A risentirne, ovviamente, è il livello del linguaggio politico, il livello di democrazia di un Paese e il livello di produzione della bile nel fegato delle persone che ascoltano con attenzione quanto effettivamente viene detto.
La comunicazione politica odierna, insomma, sembra ricorrere a piene mani agli strumenti tipici dell’advertising commerciale. Ma lo fa con rischi assai diversi. Il problema di fondo, infatti, è dato proprio dalle peculiarità dei due ambiti in questione. Cosa vogliamo dire? Semplicemente che se “ci fanno il pac…kaging” relativamente ad un prodotto commerciale la prossima volta non lo ricompreremo e questa esperienza negativa, comunque, avrà solo effetti limitati alla nostra persona. In ambito politico, invece, una scelta di voto fatta sulla base del “packaging”, piuttosto che sulle reali proposte politiche del leader di turno, può essere dannosa per un’intera comunità e può protrarre i suoi effetti per diversi anni.
Insomma il messaggio mi sembra chiaro: Attenti ai pac…kaging.
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