domenica 1 aprile 2007

La scienza come pratica di libertà

di Giulio Giorello

“REGINA:
E questa gliel’ha mandata Amleto?
POLONIO:
Buona signora , un po’ di pazienza. Sarò fedele (legge)
Dubita che le stelle siano fuoco.
Dubita che si muova il sole.
Dubita che la verità sia menzognera,
Ma non dubitare del mio amore-
O cara Ofelia, non sono capace di fare versi, non ho l’arte di scandire i miei lamenti, ma che io ti ami più di ogni altra cosa, più di ogni altra, credilo. Addio.
Il tuo per sempre, signora amatissima,
Finché questa macchina resta sua,

Amleto
Questa lettera mia figlia me l’ha mostrata per obbedienza”…(Amleto, Atto II, Scena II)


Ma perché Amleto è “pazzo”? Perché osa mettere in discussione due verità “assolute”, almeno per la maggior parte dei contemporanei (di Shakespeare, non della figura storica, il principe danese medioevale, da cui peraltro avrebbe tratto spunto il grande poeta inglese): che appunto il Sole si muova intorno alla Terra e che le stelle non siano che piccoli punti luminosi sospesi alla volta celeste. E l’Inghilterra di Shakespeare è anche quella in cui Giordano Bruno era venuto a insegnare non solo che il centro del moto del Sistema era il Sole e non più la Terra, ma anche – andando oltre Copernico – che ogni stella può essere centro di un sistema di “terre e lune”, nel grande spazio “immenso”. Di Amleto (sempre in quella Scena II dell’Atto II) Polonio dice che “c’è del metodo” in quella sua follia. Questo “metodo”, nel caso dell’impresa scientifica, non è altro che l’esercizio sistematico della critica. Come ebbe a dire, al tempo del suo soggiorno presso i luterani, ancora Bruno: “Trattando di filosofia, tutte le cose saranno per me ugualmente dubbie: non solo le affermazioni più ardue e lontane dal senso comune, ma anche quelle che sembrano sin troppo certe ed evidenti, dovunque e comunque saranno oggetto di controversia”.

Questo libero proliferare della controversia è alla base di ogni grande svolta nella ricerca scientifica. So bene che la filosofia naturale di cui parla Bruno nei suoi dialoghi in lingua italiana, come in alcune delle sua opere in latino, non coincide con la scienza, come noi la conosciamo! E’ difficile pensare a Bruno come a un ricercatore dei nostri tempi, che coordina una serie di indagini sperimentali, che magari dirige un laboratorio, che pubblica i propri risultati nelle riviste specialistiche, ecc.; ma basta spostarsi dalla fine del Cinquecento ai primi decenni del Seicento per constatare che una figura del genere c’è già. In Italia si chiama Galileo Galilei. E quando Galileo pubblica (1632) il suo grande manifesto per il copernicanesimo è da tempo lo scopritore affermato che ha ripreso con vigore e successo l’idea che vi siano “montagne sulla Luna”, ha individuato le “Lune Medicee” (cioè, i satelliti di Giove), ha dichiarato la natura stellare della Via Lattea, ha trovato le fasi di Venere, ha studiato le macchie solari, ecc. E’ già uno scienziato nel nostro senso del termine – ovvero, qualcuno che unisce osservazione e teoria, ritenendo che le proprie congetture debbano essere corroborate dall’esperienza; che non si limita all’esperienza dei puri sensi, ma sfrutta anche quella potenziata dai congegni della tecnica; che non esita a ricorrere alla matematica per poter leggere nel Grande Libro del Mondo; e che ritiene che i competenti in materia abbiano tutto il diritto di intervenire con controlli severi per accertare se quello che si è immaginato sia più o meno corretto, in modo che non resti pura speculazione. In una celebre pagina del Dialogo sopra i due Massimi Sistemi del Mondo si legge: “SIMPLICIO: Questo modo di filosofare tende alla sovversione di tutta la filosofia naturale, e al disorientare e mettere in conquasso il Cielo e la Terra e tutto l’Universo […]. SALVIATI: Non vi pigliate già pensiero del Cielo né della Terra, né temiate la lor sovversione, come né anco della filosofia […]. La filosofia medesima non può se non ricever benefizio dalle nostre dispute, perché se i nostri pensieri saranno veri, nuovi acquisti si saranno fatti; se falsi, col ributtargli, maggiormente verranno confermate le prime dottrine”.

A buon diritto, nella Crestomazia italiana. La prosa (0000), Giacomo Leopardi indicava in Galileo il modello della prosa civile per gli italiani. Le parole del “maligno pisano”, come era chiamato (non senza ironia) Galileo dall’ingegnere Carlo Emilio Gadda, suonano come una Dichiarazione di Indipendenza scientifica, che precede di più di un secolo quella politica (a opera dei “risoluti ribelli” nordamericani del 1776). Non entro qui nella delicata questione della “lettura” di Bruno da parte di Galileo – per cui rimando alla magistrale indagine svolta dal grande Giovanni Aquilecchia. Mi limito a ricordare come per Galileo la scienza sia ormai sapere pubblico e controllabile, e la critica, magari spinta fino al limite dello “scisma” entro la stessa comunità scientifica, rappresenti il lievito per la crescita della conoscenza.

Come ha più volte ricordato un altro grande nostro maestro, Paolo Rossi, questa stessa capacità di usare in modo euristico la “disputa” è poi passata dalla sperimentazione scientifica a quella politica, in quella sorta di grande esperimento che è stata l’instaurazione della democrazia dei Moderni. E’ stato proprio un filosofo americano a sviscerare la portata di quella Dichiarazione in campo scientifico, mostrando – sul finire dell’Ottocento – come una piena indipendenza si possa raggiungere solo entro una concezione fallibilistica del sapere. Per Charles Sanders Peirce, logico, matematico e filosofo, vi erano tre cose “che non possiamo mai sperare di raggiungere con il ragionamento: la certezza assoluta, l’esattezza assoluta, l’universalità assoluta”. Il fallibilismo non è una teoria, bensì un atteggiamento, uno stile di vita, un’opzione filosofica che Peirce non vedeva sovrastare la pratica della ricerca, ma annidarsi nelle pieghe della scienza. Un sapere assoluto, sciolto cioè dal vincolo della critica, avrebbe a suo dire precluso ogni rinnovamento dell’indagine. Né a difesa di tale assolutezza era lecito invocare lo spauracchio, agitato dai “conservatori” dei più diversi schieramenti, circa le “terribili conseguenze” che il fallibilismo avrebbe potuto avere: “Il conservatorismo […] è totalmente fuori luogo nella scienza, che al contrario è sempre stata spinta in avanti dai radicali e dal radicalismo, nel senso dell’impazienza di portare le conseguenze all’estremo. Non però da un radicalismo arcisicuro, bensì da un radicalismo che tenta esperimenti”.

Forse, uno degli esempi nella pratica scientifica del Novecento di questo radicalismo che tenta esperimenti è l’avventura intellettuale di un grandissimo matematico italiano, Bruno de Finetti, di cui ricorre, peraltro, quest’anno (2006) il centenario della nascita (1906). Questa avventura, in particolare il profondo rinnovamento della teoria delle probabilità come “logica dell’incerto”, è stata mirabilmente ricostruita, utilizzando alcuni testi chiave dello stesso de Finetti, da Marco Mondadori in un volume (B. de Finetti, La logica dell’incerto, a cura di M. Mondadori, il Saggiatore, Milano 1989) che ripresentava non solo il fondamentale “Probabilismo. Saggio critico sulla teoria delle probabilità e il valore della scienza” (1931), ma anche il decisivo intervento all’Istituto Poincaré “La previsione: le sue leggi logiche, le sue fonti soggettive” (1937) – l’originale è in francese, il volume curato da Mondadori ne offre invece la prima versione italiana. Come ha osservato lo stesso Mondadori, la genialità di Bruno de Finetti consiste nell’essere riuscito a trasformare “un’idea filosofica pazzesca”, così la definivano i suoi critici “oggettivisti”, “nel nucleo di un programma scientifico tra i più progressivi del Novecento” – quella concezione “soggettiva” o “personale” delle probabilità che ha visto decollare, grazie ai risultati definettiani, la cosiddetta statistica bayesiana. In questa sede non interessano gli aspetti tecnici della questione, come riemerga con Bruno de Finetti lo spirito del fallibilismo, in interessante sintonia con le parole di Galileo e quelle di Peirce che abbiamo sopra citato.

Mi sia lecito rimandare, in particolare, a un testo filosofico di Bruno de Finetti, L’invenzione della verità, concepito nel 1934 (dunque, nel periodo in cui il matematico si era gettato nelle dispute!), ma pubblicato solo quest’anno (Raffaello Cortina, Milano 2006), grazie al generoso impegno della figlia Fulvia. Nelle pagine iniziali di quest’ultimo saggio, Bruno de Finetti tratta anche di quelle concezioni che tendono ad attribuire “un valore assoluto ed eterno” a questa o quella pretesa “verità”. Scrive: “Questa illusione diffusa inveterata e tenace ha costituito e costituisce il maggior inciampo per la Scienza e per la stessa Filosofia, spingendo ogni successiva concezione a non contentarsi d’essere ‘la verità d’oggi’, punto di partenza per un ulteriore periodo di progresso scientifico, ma a pretendere d’essere “la verità”, e cercare qualche appiglio per consacrare se stessa come ultimo e definitivo verbo della Filosofia. Danno per la Scienza, che, quando giunge a una svolta essenziale, offre le difficoltà intrinseche di quel momento delicato ed eroico, si trova tra i piedi una muta di botoli ringhiosi a difesa dei loro minacciati feticci; danno forse anche maggiore per la Filosofia, che, beata della propria verità impercettibile, si stacca dalla Scienza e dai problemi che il suo progresso continuamente pone, provandosi così dell’unica possibile fonte di alimento, e condannandosi a isterilire e fossilizzarsi nella ripetizione monotona di frasi che vanno svuotandosi sempre più”.

L’atteggiamento che de Finetti esprime nei confronti della verità non è quello dello scettico che, come il serpente del celebre emblema, finisce per mordersi la coda; bensì quello del buon pragmatista: “Una tale critica non pretende di dimostrare l’impossibilità di giungere a una verità che non abbia mai più bisogno di ritocchi: un simile intento sarebbe contraddittorio, ché esso consisterebbe proprio nello stabilire una tale verità”. Ed è da buon pragmatista anche la conclusione (su tale punto) di Bruno de Finetti. Il suo punto di vista non è una verità che si impone, ma solo un atteggiamento “che conviene abbracciare [… come] favorevole alla possibilità indefinita di progresso, dato che esso non causa alcun danno e molti ne evita”.

Potrei chiudere qui, ma di questi tempi è bene anche ricordare quanto sia scomodo siffatto atteggiamento: esso è, per ricorrere a un’immagine tratta dalla mitologia, come il volo di Icaro. Nella interpretazione cara alla “pia devozione”, quel mito dovrebbe servire ad ammonimento per i ricercatori che troppo destabilizzano la costellazione delle idee e dei valori ricevuti. Per Giordano Bruno, al contrario, l’immagine di Icaro era l’emblema della passione per il conoscere, di quel tipo di “eroico furore” che preferisce rischiare la morte da libero piuttosto che tollerare una vita da sottomesso. L’Amleto di Shakespeare ci fa capire dalle parole del tiranno Claudio e del suo accolito, il pedante Polonio, quanto i potenti si sentano “turbati” dalla libertà di indagare la natura a modo proprio. In questa sede non è nemmeno il caso di insistere, poiché credo che il pubblico ben sappia quali siano i frutti perversi quando da questo da questa o quella pretesa “radice” spunta la pianta del totalitarismo: dalle condanne di Bruno e di Galileo alla ferocia della repressione staliniana contro i biologi sovietici al tempo del famigerato caso Lysenko.

Preferirei terminare con una immagine più leggera di un grande pensatore italiano, Giovanni Papini, ben familiare al de Finetti di “Probabilismo” e di questo L’invenzione della verità. Scriveva Papini in Sul pragmatismo (saggi e ricerche, 1903-1911) (volume pubblicato nel 1913) che il pragmatismo era “una teoria corridoio – un corridoio di un grande albergo, ove sono cento porte che si aprono su cento camere. In una c’è un inginocchiatoio e un uomo che vuol riconquistare la fede – in un altro uno scrittoio e un uomo che vuole uccidere ogni metafisica – in una terza un laboratorio e un uomo che vuol trovare dei nuovi ‘punti di presa’ sul futuro… Ma il corridoio è di tutti e tutti ci passano: e se qualche volta accadono delle conversazioni fra i vari ospiti nessun cameriere è così villano da impedirle”.

Anche oggi qualche “cameriere villano” si fa avanti a intimarci che cosa dovremmo credere, di fronte a quali assoluti inginocchiarci e quali sarebbero i limiti cui la ricerca dovrebbe sottostare. Il fatto che talvolta si tratti di “un personale” che occupa posti di rilievo nelle burocrazie della Politica o dello Spirito, non deve troppo impressionarci, almeno se vogliamo che quella spregiudicata indagine del mondo di cui hanno trattato gli autori qui citati non si arresti. E’ questo il nostro principale dovere nei confronti delle future generazioni.

Giulio Giorello

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