venerdì 30 marzo 2007

L’idea di comunità

di Roberto Esposito


Credo che oggi la domanda sul significato, e anche sul destino della comunità, nasca dall’impressione, che forse tutti abbiamo, di essere esposti a una contraddizione.
Da un lato tutto oggi sembra parlarci di comunità. Tutto - ogni pezzo della nostra esperienza singolare, collettiva - sembra nominare, evocare questo termine, questo tema della comunità. Cosa altro ci dicono, in fondo, di cosa altro parlano se non della questione della comunità i corpi, i visi, gli sguardi di milioni di affamati, di deportati, di rifugiati, le cui immagini spesso terribili scorrono sugli schermi televisivi da ogni angolo del mondo? E non è ancora, in fondo, la comunità, la questione cioè del rapporto tra le persone che richiama alla fine ogni nascita? Si nasce dentro un’altra persona - come vedremo alla fine. Quindi tutto ci parla della comunità. Eppure, ecco la contraddizione, proprio oggi, mai come oggi, la comunità, questo tema della comunità, appare abbandonata a un doppio destino negativo: il destino della dimenticanza, della perdita della memoria di ciò che significava questa parola; e poi il destino della deformazione, del tradimento, del significato originario della comunità.

Della dimenticanza perché, in fondo, il crollo di tutti i comunismi ha prodotto come una sorta di vuoto di pensiero, come un gorgo in cui la questione della comunità è, diciamo così, colata via, si è quasi inabissata. Ma poi a questo pericolo di oblio, di cancellazione, se ne aggiunge un altro, un altro pericolo forse ancora più grave: cioè quello del fraintendimento, della deformazione di ciò che l’idea e la pratica di comunità dovrebbe significare. Questa deformazione accade, anche qua, dovunque: lontano, alla periferia del mondo, ma anche nel centro delle nostre città, nei ghetti delle nostre metropoli. Accade tutte le volte che questa parola di comunità viene ridotta e immiserita nella difesa di nuovi particolarismi, come si dice, di piccole patrie chiuse e murate nei confronti dell’esterno, contrapposte a tutto ciò che non gli appartiene; a ciò che non appare identico, identitario.

Perché è proprio questo che c’è all’origine di tutti quelli che oggi si chiamano i fondamentalismi orientali e occidentali; questo senso angusto delle radici, della terra, della lingua. Della lingua intesa non come ciò che ci rende possibile parlare, ma ciò che impedisce la parola e ci chiude dentro noi stessi. E quindi, ecco, in questa alternativa tra dimenticanza e perversione, la comunità, l’idea di comunità, rischia di trasformarsi o in una sorta di deserto: ciò che non c’è più; o in una sorta di fortezza: qualche cosa di chiuso e difeso da barriere e da muri; rischia, quindi, di scomparire dall’orizzonte del pensiero e anche dall’orizzonte della pratica effettiva.

Proprio per sfuggire a questa doppia contraddizione, a questa minaccia, si chiede un nuovo sforzo di pensiero - parte anche della filosofia -, un nuovo slancio appunto di pensiero, ma anche di prassi, che individui un nuovo linguaggio attraverso cui nominare questo tema della comunità. Un nuovo linguaggio rispetto a quelli tradizionali della filosofia politica, della scienza politica, della sociologia. Perché? Perché proprio a questi linguaggi si deve appunto quella contraddizione, quel paradosso che richiamavo prima, che chiude il pensiero della comunità in questa forma difensiva contro l’altro da sé.

Qual è questo paradosso? Questa contraddizione che, appunto, investe un po’ quasi tutte le concezioni attuali della comunità? Sta nel fatto che si tende a declinare il tema della comunità e del comune in termini di proprietà e di proprio. La comunità viene intesa come una proprietà dei suoi membri, come qualche cosa che li identifica e li chiude in una proprietà comune, in una identità, come si dice. Se, viceversa, noi apriamo un vocabolario e vediamo che significa comune, il vocabolario ci dirà: comune significa il contrario di proprio, è comune ciò che è di tutti, che è di molti, non che è di qualcuno. Al contrario la comunità oggi è pensata proprio come qualche cosa che invece appartiene a coloro che ne fanno parte: evoca l’appartenenza, appunto, l’identità, la mancanza di rapporto con l’altro, la chiusura in se stessa.

Per cercare di sfuggire a questo paradosso, io ho fatto un percorso un po’ più lungo che va all’origine etimologica del termine comunità. Comunità è una parola originariamente latina: communitas, che ha dentro di sé il termine munus. Munus significa “dono”: legge del dono, obbligo di donare qualche cosa, obbligo di curare l’altro. Quindi, originariamente, l’idea di comunità aveva dentro di sé questa idea di una cura nei confronti dell’altro; di una legge e di un obbligo a donare qualcosa di se stesso. Quindi implicava non una forma di appropriazione, di appartenenza, di proprietà, ma semmai una forma di elargizione, di espropriazione, una tendenza quasi a uscire fuori di sé, non a chiudersi in se stessi. Naturalmente questa idea originaria di comunità è stata ed è ancora intesa come un rischio, il rischio appunto di perdere qualche cosa, un rischio di smarrire i confini che ci chiudono nella nostra identità.

E perciò che da tanto tempo è stato messo in moto contro questo rischio, contro questo pericolo della comunità, una logica che io definisco “una logica immunitaria”, un processo di immunizzazione. Vediamo che significa. Voi tutti sapete che con il termine “immunità” si intende in linguaggio medico, in linguaggio biomedico, una forma di esenzioni o di protezione nei confronti di una malattia. E’ immune colui che non può contrarre un’infezione. In ambito giuridico, il linguaggio del diritto, per immunità si intende il fatto che qualcuno è in una condizione di intoccabilità da parte della legge comune. Per esempio un uomo politico, un capo di Stato, un diplomatico, gode dell’immunità perché, appunto, non è esposto ai rischi cui sono invece esposti gli altri, è protetto, è garantito appunto dalla sua immunità. Quindi sia in ambito medico sia in ambito giuridico-politico, per immunità è chiaro che si intende qualche cosa che è proprio il contrario della comunità. Mentre nella comunità, abbiamo detto, almeno nel suo significato originario, c’è questa sorta di uscita fuori di sé, di contatto con gli altri, di relazione con tutti, invece l’immunità rimanda a una condizione particolare di protezione, di esenzione dalla legge, appunto, del dono. E’ immune colui che non deve dare nulla a nessuno. Colui che può restare chiuso e protetto nei propri confini identitari.

Ora le tesi che io vorrei proporre sono due essenzialmente. La prima è che questo dispositivo immunitario, cioè questa esigenza di protezione di cui si è detto (che originariamente attiene all’ambito biomedico e all’ambito giuridico), nel tempo si è andato estendendo a tutti i settori dell’esperienza; a tutti i settori della realtà contemporanea, sempre di più. Certo, ogni società in fondo, anche in passato, ha sempre espresso un’esigenza di autoprotezione. Ma, ecco, la mia impressione è che nella società contemporanea oggi questa esigenza di protezione, di chiusura in sé, sia diventato il perno centrale intorno al quale ruota tutto, sia la pratica effettiva, le pratiche effettive, sia l’immaginario, le pratiche simboliche della nostra società. Per farsi un’idea di questo rilievo crescente dell’esigenza immunitaria si pensi al ruolo fondamentale che ha acquisito proprio l’immunologia, cioè quella scienza medica che si occupa dei nostri sistemi immunitari. Tutti quanti sapete che nei nostri corpi c’è qualcosa che si chiama “sistema immunitario”, che ci protegge dalle infezioni, dal contagio, dalla contaminazione con gli altri.

Questa scienza dell’immunologia è diventata sempre più importante. Pensate che cosa ha significato per le nostre società la malattia dell’Aids, la sindrome, come si dice, da immunodeficienza. Cosa ha significato in termini di normalizzazione dell’esperienza individuale e collettiva. Dove normalizzazione significa assoggettamento ad alcune norme, attenzione, non solo igienico-sanitarie, ma norme sociali. La malattia dell’Aids ha modificato l’esperienza dei rapporti tra le persone. Ripeto, non solamente in chiave, appunto, strettamente sanitaria, ma anche in generale. Ha provocato, negli anni Ottanta, un mutamento nei rapporti, una tendenza sempre più a difendersi, a chiudersi rispetto al rischio del contagio. Quindi ha determinato una serie di barriere socio-culturali nei confronti di tutti i rapporti interrelazionali. Se passiamo dall’ambito delle malattie infettive all’ambito sociale, per esempio dell’immigrazione. Rappresenta un grande fenomeno che abbiamo tutti sotto gli occhi. E abbiamo una conferma di questa importanza sempre maggiore che ha l’atteggiamento immunitario. Nel senso che oggi, in tutte le società contemporanee – a prescindere dal fatto che si abbia torto o ragione – la questione del flusso immigratorio è considerato uno dei problemi, anche uno dei rischi, delle società contemporanee che in qualche modo creano posti di blocco, transenne, nuove linee di separazione rispetto a che cosa? A qualcosa che minaccia – o almeno appare minacciare – la nostra identità biologica, sociale, ambientale. E la stessa cosa – anche se può apparire a prima vista una questione minore – si può dire anche per quel che riguarda le tecnologie informatiche. Quasi tutti voi avrete un computer a casa, ma esistono anche i grandi computer che determinano tutti i rapporti, regolano i rapporti tra le società. E oggi qual è il maggior problema? E’ il problema dell’infezione di nuovi virus che si insinuano dentro queste nostre macchine. E, quindi, anche in questo ambito si creano continuamente dei nuovi apparati antivirali, delle protezioni, per evitare, appunto, il rischio del contagio elettronico. Guardate, questa è una cosa molto importante: ogni giorno si scoprono centinaia di nuovi virus dei computer, e i grandi Stati impiegano delle risorse enormi per costruire degli apparati antivirus, degli apparati immunitari, protettivi.

Nell’episodio delle due torri, nel 2001, l’attacco terroristico, l’Fbi ritiene che sia stato provocato disattivando alcuni dispositivi di allarme con dei virus. E, infine, dopo aver visto questa sindrome immunitaria sul piano medico, sul piano sociale, sul piano informatico, ricordiamo che, anche al centro di molte controversie giuridiche nazionali e internazioni, v’è la battaglia sull’immunità di personaggi politici. Ricordate il caso di Pinochet, l’ex dittatore cileno, di Milosevic e di tanti altri... Ma anche qui nel nostro Paese, c’è una battaglia tra coloro che rivendicano l’immunità, il fatto di non poter essere esposti alla giustizia comune, e una tendenza comunitaria che tende a togliere l’immunità, quindi a rompere le barriere che proteggono determinati personaggi politici. Quindi si vede che anche da questo lato, questa dialettica, questo scontro tra comunità e immunità determina effettivamente anche delle logiche dell’agire politico e giuridico. Quindi anche da questo lato la questione dell’immunità resta al crocevia di tutti i percorsi.

Si guarda, comunque, con preoccupazione a quanto accade al corpo individuale, al corpo sociale, al corpo tecnologico, al corpo politico. Comunque si cerca di impedire, di prevenire, di combattere con ogni mezzo che cosa? La diffusione di un contagio. Un contagio costituito proprio dalla relazione, dal rapporto, dovunque questo contagio possa determinarsi.

Questa preoccupazione autoprotettiva non è solo del nostro tempo, non appartiene solo alla nostra epoca. In fondo tutte le società e tutti gli individui si sono sempre preoccupati di assicurare la propria sopravvivenza rispetto ai rischi di contaminazione e di contagio. Ma oggi a me pare che la soglia di attenzione nei confronti del rischio di contagio – e quindi anche l’entità della risposta – è sempre più aumentata, fino a toccare il suo apice nella società contemporanea. Perché questo? Questo è dovuto a una serie di cause diverse che in qualche modo riguardano ciò che chiamiamo “globalizzazione”, ciò che si chiama oggi comunemente “globalizzazione o mondializzazione”. Perché? Perché quanto più gli uomini - ma anche quanto più le idee, i linguaggi, le tecniche - comunicano e si intrecciano tra di loro (questa è la globalizzazione), tanto più si ingenera come una sorta di controeffetto, di controspinta, una sorta di rigetto immunitario. Quindi, paradossalmente, proprio oggi che il mondo, da un certo punto di vista, è tutto unito, tanto più si determina questa paura della contaminazione. E dunque si creano nuove barriere, nuove chiusure immunitarie. Si può dire che in fondo la caduta del Muro di Berlino, nell’89, la caduta del grande Muro, che sembrava potesse costruire un mondo più unito, in realtà ha determinato la costruzione di tanti piccoli muri, perché, ancora una volta, nella fase globalizzata, nel mondo aperto, tanto più è nata questa preoccupazione di impedire un eccesso di circolazione, e quindi di potenziale contaminazione. Contaminazione, ripeto, non solo in senso biologico e medico: contaminazione, intesa come circolazione delle idee, apertura dei rapporti, perché si è visto in questo un rischio da parte di società, di gruppi o di individui. Quindi da questo punto di vista potremmo dire che il virus, i virus sono diventati, in fondo, la metafora di tutte le nostre paure. Dovessimo simboleggiare le nostre paure, oggi nel mondo contemporaneo, si potrebbe proprio simboleggiarle con il virus. In realtà c’è stata una fase in cui la paura del virus si è attenuata: è stata negli anni Sessanta quando si era diffusa l’idea, ottimistica, che la medicina fosse in grado di vincere alcune battaglie contro le grandi malattie infettive, quando uscirono gli antibiotici, ricordate? Sembrava che il rischio delle grandi infezioni fosse bloccato. Poi, improvvisamente, negli anni Ottanta, si è scoperto l’Aids, che già c’era, si è scoperto e ha cominciato a fare vittime. E allora è come se fosse crollata una diga psicologica, le persone sono state colte – un’altra volta! – da una paura crescente, e quindi i virus sono diventati come una sorta di diavoli, capaci di entrare nel nostro corpo e di risucchiarci nel vuoto della morte. E allora la furia dei virus è apparsa inarrestabile, irresistibile, e quindi anche l’esigenza immunitaria, protettiva, è cresciuta a dismisura. Ecco perché siamo arrivati a questa situazione attuale.

Proprio qui, tuttavia, si inserisce la seconda tesi. La seconda tesi qual è? Che questa immunità, ripeto, necessaria alla vita individuale e alla vita collettiva, se va oltre una certa soglia, ecco finisce per negare quella stessa vita che vorrebbe proteggere. Perché? Perché questa esigenza immunitaria, spinta oltre un certo limite, costringe la vita entro una sorta di gabbia, di armatura in cui si perde non soltanto il senso della nostra libertà, perché libertà significa anche avere rapporti, stare all’esterno, parlare, comunicare, non stare chiusi dentro quattro mura. Si perde non solo il senso della nostra libertà, dicevo, ma anche quella dimensione della circolazione sociale, appunto quella dimensione importante dell’esistenza che io chiamo con il termine, appunto, latino di communitas, cioè la possibilità di uscire da sé e rapportarsi con l’altro. Perché certo se noi restassimo chiusi tutta la nostra vita in una stanza i rischi di contagio sarebbero ridotti a zero, ma si tratterebbe di una vera vita? Cioè di una vita che vale la pena di vivere? Una vita rinchiusa e protetta in una gabbia, in una stanza? Ecco la contraddizione terribile che va messa in luce.

La contraddizione è questa: ciò che salvaguarda il corpo individuale, o il corpo politico, è anche ciò che ne impedisce lo sviluppo, che lo chiude, che blocca il suo sviluppo. E quindi che oltre un certo limite rischia di distruggerlo. Si potrebbe dire – per usare il linguaggio di un filosofo, che si chiamava Benjamin, Walter Benjamin – che questa immunizzazione, ad alte dosi, che cos’è? E’ il sacrificio del vivente, della forma di vita aperta, alla necessità della semplice sopravvivenza biologica. Come se l’uomo, pur di sopravvivere senza rischi, sacrificasse a questa esigenza di sopravvivenza, la dimensione più autentica e importante della vita, che è la vita di relazione con gli altri. Si riduce la vita alla semplice sopravvivenza.

D’altra parte questa contraddizione che vi dicevo, cioè questa connessione tra protezione e negazione della vita, questa protezione autodistruttiva è implicita proprio nella procedura di immunizzazione medica. Lo sapete, come si fa per vaccinare qualcuno? Si immette nel suo corpo un frammento di quella malattia da cui ci si vuole proteggere. Quindi l’immunizzazione procede sempre per via negativa: ci si immette dentro un pò di male per poter evitare un male peggiore. E’ come se per restare in vita bisognasse in qualche modo, uso una metafora, assaggiare la morte. Questo l’elemento di paradosso implicito nel vaccino, nella vaccinazione che è la prima forma di immunizzazione. D’altra parte il vocabolo greco pharmacon significava insieme cura e veleno, medicina e veleno nello stesso tempo. Ed è come se i moderni processi immunitari portassero questa contraddizione ai suoi esiti estremi: oggi sempre più la cura dai rischi di contaminazione si dà nella forma di un veleno, in una sorta di veleno, qualcosa che avvelena le nostre vite. D’altra parte lo stesso paradosso, la stessa contraddizione, si coglie anche proprio nelle nostre società: si alza sempre più la soglia di attenzione al rischio. La televisione, i giornali, che ci dicono sempre? Attenzione, guardatevi da questo pericolo! Quindi alzare sempre di più la soglia di attenzione al rischio significa bloccare, fare regredire la società all’indietro. C’è un punto oltre il quale questa insistenza ossessiva, nei confronti del pericolo, diventa essa stessa un pericolo. E’ come se si anticipasse sempre il rischio per poterlo fronteggiare. E’ un pò lo stesso funzionamento delle compagnie di assicurazione. Che fanno le compagnie di assicurazione? Alzano sempre di più il prezzo, il premio, quanto più il rischio aumenta. Per esempio nella mia città, che è Napoli, assicurare una macchina dal furto costa moltissimo perché il rischio è alto. Si potrebbe quasi immaginare che le compagnie di assicurazione organizzino i furti di auto per poter alzare il premio... è una metafora, un’esagerazione.

Tutto questo fa parte, come dicevo, dell’esperienza moderna, in generale, di questa dialettica tra rischio e protezione. La mia impressione, però, è che oggi stiamo toccando un punto limite. E cioè una linea al di là della quale questo meccanismo - che produce insieme rischio e protezione - minaccia di impazzire. Cioè di uscire dal controllo, di sfuggirci di mano. Ed è esattamente la soglia che stiamo varcando. Per farsene un’idea: tutti sapete cosa accade nelle cosiddette “malattie autoimmuni”, cosa sono le malattie autoimmuni? Quelle malattie in cui il sistema immunitario è talmente forte che si rovescia contro il corpo che dovrebbe proteggere. Mentre, per esempio, l’Aids implica un deficit immunitario, la malattia autoimmune è quella in cui, ripeto, la protezione è tanto violenta che distrugge il corpo che dovrebbe proteggere.

Ora, spostiamoci un poco su quello che accade oggi nel mondo a partire, quanto meno, dagli eventi dell’11 settembre 2001 (l’attentato alle Twin Towers), ma già da prima in realtà. La mia tesi è che questa guerra in corso - perché c’è una guerra in corso – sia proprio legata a doppio filo a questo elemento dell’immunizzazione, questa sindrome immunitaria, cioè che questa guerra sia l’esito e la causa stessa di questo meccanismo di difese immunitarie, di questo eccesso di difesa. Anzi, che questa guerra segni proprio quello che si potrebbe definire una “crisi immunitaria”: un impazzimento del meccanismo di controllo che c’è, che c’era precedentemente nel mondo. E’ come se si fossero incontrate e scontrate due grandi ossessioni immunitarie speculari, contrapposte e identiche. Da una parte l’ossessione dell’integralismo islamico, l’ossessione, cioè, di non farsi contaminare dalla cultura occidentale, di non fare contaminare la sua pretesa purezza: una sindrome immunitaria. Dall’altra, anche l’Occidente ha avuto, e ha, una ossessione immunitaria. Qual è l’ossessione immunitaria dell’Occidente? Quella, appunto, di proteggere la propria ricchezza, i propri privilegi, rispetto al resto del mondo affamato che sta ai suoi confini.

Ora, quando queste due ossessioni immunitarie si sono incontrate e scontrate, là è nato questo conflitto. Il mondo è stato colto da una scossa, da una convulsione, che ha proprio (se ci pensiamo) il carattere di una malattia autoimmune. Come se il mondo avesse oggi una malattia autoimmune. L’eccesso di difesa, sia ad Est, sia ad Ovest, ha determinato qualche cosa che minaccia di distruzione tutto il mondo, il mondo stesso in tutta la sua complessità. Quindi quello che è esploso, con le Torri Gemelle di Manhattan, è stato, si potrebbe dire, proprio il sistema immunitario che reggeva il mondo, fino allora. E non si perda di vista anche il fatto che tutta questa vicenda, questa tragica vicenda, si è svolta, si svolge in quello che possiamo definire il “triangolo del monoteismo”. Quali sono le tre grandi religioni monoteistiche? Il Cristianesimo, l’Ebraismo, l’Islamismo. Queste religioni in sé hanno, diciamolo, anche dei grandi tesori spirituali, però quando si traspone il monoteismo religioso in monoteismo politico allora si crea, diciamo, si scatenano le potenze di morte. Ed è ciò che è accaduto. E’ accaduto dentro questo triangolo. Perché tutto questo conflitto non avviene, per esempio, nel mondo buddista, nel mondo induista. No, sta dentro il mondo monoteista. Perché? Si potrebbe dire in fondo che le civiltà – Islamismo, Cristianesimo, Ebraismo – si scontrano non tanto, come si dice, perché troppo diverse, ma perché tutte quante troppo legate alla logica dell’uno. Monoteismo significa la logica dell’unità. Questa logica monoteistica assume, ad Oriente, la figura dell’unico Dio, del Dio del Corano, che dice: io sono il Dio e dovete obbedirmi. E in Occidente qual è il dio, il dio monoteistico che governa tutto? Il denaro. Il denaro è il nostro dio. Quindi sono due dii contrapposti, due logiche dell’uno, due logiche monoteistiche che si scontrano con effetti letali, appunto, gli effetti di una guerra terribile. E quindi questo in fondo è, come dire, la posta metafisica, filosofica di questa guerra. Al di là del petrolio, delle bombe, della sabbia... la posta metafisica di questa guerra qual è? E’ la volontà di dare a tutto il mondo una verità. Una verità che esclude le altre verità. Quindi oggi abbiamo lo scontro tra due verità parziali che vogliono diventare, ambiscono a diventare verità totali. Abbiamo detto, da una parte la verità del fondamentalismo islamico, la verità piena; dall’altra la verità, potremmo dire così, vuota dell’Occidente. Qual è la nostra verità, la verità dell’Occidente? La verità dell’Occidente è che non esiste verità, che conta solo il guadagno, la tecnica, la capacità di ottenere i propri scopi. Questa è la verità dell’Occidente. La verità dell’Occidente è che non c’è verità: c’è solo il principio di prestazione, di guadagno. Dall’altra parte, invece, una verità piena, fondamentalista, anch’essa chiusa su se stessa. Quindi quando queste due verità – una piena e una vuota – si sono scontrate appunto il mondo è entrato in fibrillazione, perché ognuna di queste verità si vuole imporre contro l’altra, non ammette che esistano altre verità, non ammette che esiste neanche qualche cosa di esterno.

Ecco la logica del monoteismo, da tutte e due le parti del mondo, non si ammette che esista qualche cosa fuori del proprio punto di vista.

Poi, come sapete, questa guerra in corso – nata quindi da una logica immunitaria – ha prodotto nuova ossessione immunitaria. Ricordate quando, dopo l’attentato del 2001, si è cominciato a temere l’antrace, l’infezione virale, l’infezione biologica, si aveva paura a viaggiare, non si poteva mandare neanche una lettera perché pure nelle lettere c’era la paura che ci fosse qualche cosa... insomma, quale immagine del mondo veniva fuori? Questo mondo totalmente immunizzato. Un mondo fatto da uomini intubati dentro maschere antigas che si temono, che si guardano a distanza l’un l’altro. Questa era l’immagine, l’immagine terribile cui perviene questa logica immunitaria portata ai suoi limiti, oltre i suoi limiti, all’eccesso. Del resto anche oggi la minaccia più forte – almeno quella che si avverte come più forte – è proprio costituita da un attacco biologico. Che cos’è un attacco biologico? Pensiamo alla figura del kamikaze; cos’è la logica del kamikaze? Il fatto che la vita umana sia minacciata non solo dalla morte, ma da un’altra vita, un uomo vivente che è esso stesso un proiettile mortale che, appunto, produce morte. La vita che produce morte. Questa è la logica del kamikaze. E, dall’altra parte, in una forma speculare, come è noto, per esempio nella guerra in Afghanistan gli stessi aerei hanno sganciato, sugli stessi territori, viveri e bombe, nello stesso tempo, bombe e medicinali, la guerra umanitaria... come si dice. A riprova del fatto di come, appunto, vita e morte ormai si siano strette in una relazione che è difficile sciogliere, dentro questa logica difensiva ad oltranza e dunque offensiva contro l’altro da sé.

Ora, senza aprire adesso un discorso, che sarebbe troppo difficile, sulle responsabilità politiche, sociali, culturali di tutto questo, di questo stato di cose, mi atterrei a questo dato, questo dato strutturale e cioè che il mondo affidato ad un regime immunitario – il mondo, cioè la vita umana nel suo complesso – non ha grandi probabilità di sopravvivenza. Diciamocelo chiaramente. Se si va ancora in questa direzione, sempre più in questa direzione, il mondo, la vita, non ha grandi chance di sopravvivenza. D’altra parte immaginare di risolvere questa complessa vicenda con gli strumenti del vecchio lessico politico – le istituzioni giuridiche, i diritti - le vecchie parole della politica non fa fare un vero passo avanti. Io, se dovessi usare una formula direi così: oggi non è più la vita che può essere salvata dalla politica, ma semmai è la politica che può essere, in qualche modo, salvata o almeno rivitalizzata dall’idea di vita. E’ la politica che può essere ripensata a partire dall’idea di vita, ma quale idea di vita? Perché la vita, l’idea di vita, possa indicare un nuovo orizzonte alla politica, possa rivitalizzare la politica, occorre che la vita stessa sia pensata come qualche cosa di molto complesso. Cioè non come il semplice filo che unisce la nascita alla morte, non come il semplice filo biologico. Pensiamo a immaginarlo, a trasporlo questo fenomeno simbolicamente nelle relazioni interumane all’interno del mondo. E’ evidente il carattere di metafora. Cioè, nel caso della gravidanza è proprio in base alla diversità che un estraneo viene accolto, non in base all’identità ma in base all’estraneità. E’ un estraneo, perché ogni nato, ogni bambino viene al mondo, appunto, come un estraneo, come uno straniero rispetto alla stessa madre, è un altro essere, un altro essere umano, è un essere umano fornito di una diverso Dna. E quindi la madre contemporaneamente, diciamo il sistema immunitario della madre, in qualche modo tiene conto di questa estraneità, ma la scintilla di questo incontro è la scintilla della vita. Quindi lo straniero, l’estraneo viene custodito proprio in base alla sua estraneità. Il nato è colui che, appunto, non soltanto è il diverso, ma addirittura lo straniero almeno una volta, per la prima volta - la nascita è sempre la prima volta - è ospitato non nonostante, ma in ragione della sua diversità. E c’è qualche cosa ancora di più che si può dire. Ed è la circostanza che l’esperienza del nascere, dal punto di vista della madre, quello che si dice “mettere al mondo” qualcuno, “dare alla luce”. Questa esperienza all’interno del sistema immunitario – perché la madre ha un sistema immunitario funzionante – anziché proteggersi negando la vita, si ha affermando una vita, non negando la vita.

Il “venire al mondo” ha dentro di sé questo atto di affermazione totale, in cui la protezione fa tutt’uno con l’affermazione, non con la negazione. Almeno in questo caso, in questo caso originario, natale, quindi la conservazione, la protezione fa tutt’uno con l’innovazione. Da questo punto di vista, ecco, allora si può vedere che cosa? Che in fondo anche il sistema immunitario se è giocato in un certo modo, se è visto in una certa maniera, non è detto che debba essere una barriera difensiva, qualcosa che chiude rispetto all’esterno, ma può essere visto – così è nel caso della gravidanza – come qualche cosa che mette in rapporto, al contrario, due estranei. Quindi dentro di sé ha proprio quella nozione di dono implicito nell’idea di munus, all’origine dell’idea di communitas. E’ qualche cosa, la nascita, che ha a che fare con quella comunità originaria fatta da coloro che donano, che sentono una legge, un obbligo di donare qualcosa all’altro. Quindi la nascita richiama il munus, nel senso del dono, come vi dicevo, perché la vita è stata donata, e ogni nato è esso stesso un dono: qualcuno ci ha dato la vita. Il corpo della madre si è diviso in due, in un certo senso, anziché la logica monoteistica dell’uno in cui si cerca di ridurre il due all’uno, nel caso della nascita è un uno, il corpo della madre, che si sdoppia, si divide in due, esce fuori di sé. Certo c’è l’elemento del rischio, la nascita è un rischio. E’ un rischio per la madre, è un rischio anche per il figlio che nasce, che viene al mondo e che quindi viene esposto ai rischi dell’esistenza. Il nato è costitutivamente esposto, perché si taglia il cordone ombelicale che lo proteggeva, e il nato entra nel mondo: è l’esposto. Quindi c’è questo elemento proprio dell’esposizione al mondo del bambino nato senza protezione, senza padre. La nascita è un dono, è un rischio, ed è, infine, anche una legge. Una legge, è una legge, un obbligo morale che implica il fatto che la vita dovrebbe significare l’accoglienza dell’altro, del nato, dello straniero, del diverso. E voi capite bene se questa metafora, se questo simbolo, se questa realtà della nascita e della gravidanza si generalizzasse nei rapporti tra gli uomini, il mondo sarebbe insieme più sicuro, più pacifico e più libero.

Roberto Esposito

Globalizzazione e giustizia

di Salvatore Veca



Le osservazioni sull’idea di giustizia globale e, più precisamente, su alcuni problemi di una teoria della giustizia globale, che propongo in questa relazione, si situano nel contesto della teoria politica normativa o, se si preferisce, nell’ambito delle teorie della giustizia. Un ambito e un contesto più ampio di quello entro cui si definiscono i dilemmi propri del diritto internazionale e del disegno delle istituzioni internazionali. Un ambito in cui ci si mette alla prova nel ricorrente tentativo di giustificare o legittimare istituzioni e pratiche sociali alla luce di un qualche principio o insieme di principi di giustizia.

Cominciamo con una considerazione molto semplice. Per dirla in breve, nell’ambito delle teorie della giustizia il punto in cui siamo è grosso modo il seguente: abbiamo sviluppato, in un’ampia controversia, negli ultimi trent’anni circa, una gamma di offerte filosofiche di teorie della giustizia, fra loro alternative, che si misurano con questioni e dilemmi ben definiti e precisi, sullo sfondo di unità politiche chiuse da confini, stati-nazione.

Su questo sfondo, che chiamo con Juergen Habermas lo sfondo della costellazione nazionale, in cui sono presupposti assetti di istituzioni politiche, si mettono alla prova differenti risposte quanto alla loro legittimità politica in termini di principi alternativi di giustizia. Utilità e diritti, equità e efficienza, libertà e diritti negativi, libertà repubblicana, eguaglianza delle opportunità, eguaglianza delle capacità, reddito di cittadinanza, identità comunitaria, cornice costituzionale, diritti fondamentali di cittadinanza, multiculturalismo e processo democratico di deliberazione: ecco una serie familiare di termini che occorrono nei repertori o nei vocabolari impiegati per il criterio del giudizio politico. E’ di questi termini che ci avvaliamo quando ci misuriamo, in parole povere, con il problema di una società giusta.


1. Ora, i problemi di una teoria della giustizia globale si mettono a fuoco a partire da questo sfondo, ma non su questo sfondo. Il loro sfondo appropriato è, o dovrebbe essere, quello della costellazione postnazionale. Se prendiamo sul serio l’affermazione secondo cui noi non viviamo in un mondo giusto, ci rendiamo conto che questa è la pretesa mena controversa che si possa avanzare in teoria politica normativa. Lo sappiamo: i problemi cominciano subito, appena un passo dopo, quando ci chiediamo come pensare di estendere criteri di giustizia dal versante interno delle unità politiche, delle società giuste o meno giuste o quasi giuste, al mondo giusto o meno giusto e quasi giusto. Come ha osservato Thomas Nagel in un importante e discusso saggio sul problema della giustizia globale, che cosa si debba intendere per giustizia su scala globale è meno chiaro e definito. (1) Possiamo anche essere d’accordo con la constatazione di Nagel, anche se non accettiamo in toto le sue tesi. D’altra parte, vale la pena di chiedersi: come potrebbe essere altrimenti?
Teniamo presente, inoltre, che l’idea stessa di giustizia si può intendere in più di un senso, come suggeriva Aristotele, almeno entro la nostra tradizione: come giustizia nella distribuzione, nello scambio e nella retribuzione. E avremo frammenti o abbozzi o signa prognostica per una teoria della giustizia globale, se pensiamo alle istituzioni internazionali che governano e regolano scambi e allocazione di risorse e beni o ad istituzioni internazionali che hanno giurisdizione. Alcuni dei più importanti mutamenti del diritto internazionale post Vestfalia nell’ultimo mezzo secolo, dai crimini contro l’umanità alle carte dei diritti umani, alla corte penale internazionale, alla controversa questione dell’ingerenza umanitaria, agli sviluppi del diritto internazionale umanitario, si iscrivono in questo abbozzo. Il punto è: come rendere coerente, come trovare una tesi unificante che ci restituisca o almeno ci avvicini ad una concezione plausibile e coerente della giustizia globale?
Torniamo così alla messa a fuoco dei problemi di una teoria della giustizia senza frontiere. Definiamo il primo problema come il problema dell’estensione dei principi di giustizia dal versante interno all’arena internazionale. Il nostro problema è come passare dalla questione della società giusta alla questione di un mondo giusto. Come vedremo, vi sono almeno due modi per tentare di risolvere il problema dell’estensione, un modo che chiamerò per convenzione cosmopolitico, e un modo che chiamerò per convenzione politico. Ma prima di esaminare, come suggerisce Nagel, l’alternativa fra una concezione cosmopolitica e una concezione politica della giustizia globale, dobbiamo misurarci ancora una volta con almeno due famiglie di obiezioni che si presentano prima facie come teoremi di impossibilità dell’estensione. Come sappiamo, si tratta per un verso dell’obiezione del programma del realismo politico. Per altro verso, dell’obiezione del programma di una qualche forma di comunitarismo o di contestualismo. Ora ci interessa chiarire la natura delle due famiglie di obiezioni, alla luce della distinzione fra concezione politica e concezione cosmopolitica della giustizia globale.

2. La tesi del realismo politico, da Tucidide a Hobbes, a Morgenthau, sino alle riformulazioni nella teoria politica contemporanea, blocca la possibilità dell’estensione in virtù di una interpretazione favorita dell’arena internazionale come intrinsecamente anarchica o come uno stato di natura. Come sostiene Thomas Hobbes in un passo giustamente celebre, i Leviatani stanno fra loro in postura gladiatoria. Si osservi che, secondo Hobbes, lo stato di natura non prevede la virtù politica della giustizia. Essa è possibile solo entro il contesto delle istituzioni politiche e, in particolare, della sovranità. Ma proprio perché è possibile risolvere la questione della guerra locale grazie all’istituzione politica, è per questa stessa ragione che non è possibile risolvere la questione della guerra fra unità politiche indipendenti e sovrane. La giustizia, si osservi, presuppone istituzioni sovrane e vale solo entro i contesti domestici. Prima e fuori dello stato non c’è giustizia. Extra rempublicam nulla justitia. Quindi, l’assenza del terzo nell’arena internazionale, come amava dire Norberto Bobbio, blocca la possibilità di estendere principi di giustizia dal contesto locale al contesto globale e di pensare giustizia globale. (Per i sostenitori della concezione cosmopolitica, questa è fonte di disagio e di biasimo e il fatto delle sovranità deve essere contrastato e la loro erosione lodata, perché annuncia una qualche forma di istituzione politica unificata a livello globale. Diversa, come vedremo, è la risposta dei sostenitori di una concezione politica della giustizia.)
Come ho sostenuto in particolare nel secondo capitolo di La priorità del male e l’offerta filosofica, la mia tesi in proposito è che il realismo politico va preso sul serio, ma che non c’è ragione di accettare la sua pretesa di completezza. (2) Il realismo politico – e non il suo ricorrente tentativo riduzionistico- definisce i vincoli entro cui giacciono le possibilità politiche, istituzionali e giuridiche alternative. Del resto, l’idea di utopia ragionevole, che avevo presentato in La bellezza e gli oppressi, lavora proprio per esplorare possibilità alternative, entro lo spazio che il mondo ci concede, per dirla con John Rawls. (3) L’idea di utopia ragionevole si definisce così (per contrasto con l’idea di utopia di società perfetta), ricorrendo allo slogan di Rousseau nell’incipit del Contratto sociale: gli esseri umani come sono, le istituzioni come possono essere. Che un esito sia possibile e faccia parte in questo senso dello spazio delle possibilità politiche come risultato provvisorio, revocabile e tuttavia prezioso dell'esplorazione filosofica è, alla fine, quanto per noi vale alla luce dell’idea di utopia ragionevole.
L'utopia ragionevole funziona nel senso di Robert Nozick come un meccanismo-filtro, piuttosto che come un meccanismo-progetto per i principi di una teoria della giustizia globale. La mia idea è che la giustizia sia virtù dei processi, piuttosto che dei progetti. E questa considerazione che richiama, grosso modo, il senso del percorso che ho seguito nei prolegomena di La bellezza e gli oppressi, sarà sviluppata in modo parzialmente divergente nella conclusione di queste osservazioni sui problemi di una teoria della giustizia globale. In ogni caso, il punto importante che mi sta a cuore è che il senso delle possibilità è sostenuto dalla prospettiva dell’utopia ragionevole e indebolisce le pretese di completezza del senso della realtà, per ricorrere ancora una volta alla storia del vecchio professore di Robert Musil, che dalla durezza degli stipiti della porta traeva le ragioni del senso della realtà, cui associare quelle del senso della possibilità.

3. Consideriamo ora la natura della seconda obiezione: quella del contestualismo. Come sappiamo, l’obiezione è basata sull’idea che la validità di criteri o principi di giustizia è vincolata dai contesti, dalle forme di vita o dalle tradizioni entro cui essi sono generati, apprestati e argomentati. In parole povere, i principi di giustizia presuppongono un “noi”, ma questo noi non è universalistico quanto piuttosto particolare e contingente, e quindi prevede “altri”. (Si osservi un’interessante connessione fra questa tesi e la tesi realistica: la giustizia come virtù politica presuppone, in un caso, un noi politico, definito entro istituzioni della sovranità territoriale e, nell’altro caso, un noi culturale o religioso o morale, definito entro una particolare forma di vita collettiva. Per realisti e contestualisti i confini contano, e molto.)
L’obiezione contestualistica blocca la possibilità dell’estensione a due livelli: ad un primo livello nega che sia possibile disporre di un criterio di valutazione etica degli stati del mondo, che sia indipendente dai valori di qualcuno, di un qualche noi. Quindi, nega universalismo. A un secondo livello, nega che possa essere conseguita convergenza su valori politici sostanziali, perché questi ultimi sono a loro volta inevitabilmente tributari nei confronti di un qualche noi contingente.
Nelle dieci lezioni sull’idea di giustizia di La bellezza e gli oppressi ho proposto due idee in proposito, per indebolire la presa dell’obiezione contestualistica e delineare i prolegomena a una teoria della giustizia senza frontiere. La prima, quello di sviluppo come libertà delle persone, ci dà il criterio di valutazione etica. L’idea è una riformulazione, sullo sfondo della mia distinzione fra agente e paziente morale, di alcune tesi di Amartya Sen proprie dell’approccio delle capacità, e fa perno sulla connessione fra qualità di vita di persone e scelta, indicando una pluralità costitutiva delle ragioni di eleggibilità di una vita. (La pluralità costitutiva delle ragioni di eleggibilità non implica relativismo, quanto piuttosto pluralismo, come sostengo nel capitolo sui diritti umani di La priorità del male e l’offerta filosofica.)
Si consideri: noi cerchiamo di guadagnare, passo dopo passo, un punto di vista universalistico che risponda al fatto delle differenze, su cui fa forza l’obiezione contestualistica. Per questo abbiamo bisogno di un criterio valutativo che sia indipendente da concezioni sostanziali di valore politico e sia, per quanto è possibile, invariante rispetto alle variazioni dei contesti, cui viene via via applicato. L'idea allora è che il miglior candidato per questo esercizio valutativo, un esercizio cruciale in questioni di giustizia globale, sia il criterio espresso dalla tesi sulle capacità e i funzionamenti delle persone, concettualizzate nella duplice dimensione dei pazienti e degli agenti morali. La prima idea dei prolegomena, quella dello sviluppo umano come libertà, è alla base di una giustificazione politicamente neutrale dei diritti umani fondamentali delle persone. Questo, perché adottare il criterio valutativo è coerente con il fatto del pluralismo esterno e con la varietà delle concezioni di vita buona, con l’essenziale varietà delle ragioni per cui, qua e là per il mondo, una vita umana è degna di essere scelta.
La seconda idea, quella della giustizia procedurale di base, riduce al massimo, per quanto è possibile, il ricorso a valori sostanziali e si basa sul semplice assioma di non esclusione di nessuno dal processo di negoziato, arbitrato, deliberazione e giudizio che miri a conseguire accordi equi. Audi alteram partem, come piaceva dire a Herbert Hart e come ha ricordato più volte, nella sua prospettiva della giustizia come conflitto, Stuart Hampshire. Dato il fatto del pluralismo, riconosciamo con Hampshire la divergenza, il conflitto e la differenza fra concezioni di vita buona o del bene umano - religiose, culturali o etiche - che generano concezioni sostanziali di giustizia. Al tempo stesso, mettiamo a fuoco la convergenza possibile sull'idea di giustizia procedurale minima, guardando alle pratiche sociali e non alle credenze o, se si vuole, guardando alle credenze in quanto modellate dalle pratiche. Non si danno, in questa prospettiva che assegna priorità - per dirla con Platone - alla città sull'anima, interpretazioni del senso di giustizia che non siano plasmate dal riferimento a pratiche sociali di arbitrato, negoziato, giudizio e deliberazione che, in una essenziale varietà di modi e di contesti, sono riconosciute come esemplificazioni convergenti della giustizia procedurale minima. Allora, la condizione della giustizia procedurale minima si rivela la precondizione per qualsiasi convergenza possibile in un mondo eracliteo, in cui si dà il fatto della divergenza, del conflitto e della durevole discordanza.

4. Ora, assumiamo che le nostre tre idee ci diano il criterio di valutazione, il criterio di costruzione e la prospettiva appropriata per approssimarci ad una teoria della giustizia globale. A questo punto, per amore dell’argomento, possiamo asserire che il problema dell’estensione dalla società giusta al mondo giusto, dal versante interno di comunità politiche definite da confini alla gran città del genere umano, dalla costellazione nazionale alla costellazione postnazionale, è certamente un problema molto difficile da risolvere, ma che non è impossibile risolverlo, come pretendono realisti politici (riduzionisti) e contestualisti. Ed è esattamente a questo punto che ci troviamo di fronte alla nuova questione: se è possibile, ci chiediamo, come è possibile estendere i principi di giustizia dalla polis alla cosmopolis? Ancora una volta: che cosa vuol dire propriamente giustizia globale?
Si consideri, per cominciare ad affrontare la questione, il paradigma kantiano di Per la pace perpetua e dei tardi scritti di filosofia politica e di filosofia della storia dal punto di vista cosmopolitico. Un paradigma rispetto al quale hanno dichiarata la lealtà degli eredi John Rawls e Juergen Habermas in due differenti tentativi di lavorare filosoficamente a un’idea di giustizia senza frontiere. Il paradigma kantiano si misura direttamente con quello hobbesiano, alle origini della nostra recente modernità, come si usa dire. Kant è convinto che sia possibile superare l’impasse dell’estensione. La sequenza dei tre articoli definitivi dell’immaginario trattato di pace nell’opera del 1795 scandisce, passo dopo passo, i requisiti da soddisfare per approssimarsi alla pace: il requisito del diritto pubblico interno (la forma del regime e la costituzione repubblicana), del diritto pubblico esterno (il federalismo che coincide con il diritto internazionale) e il diritto cosmopolitico (diritto che le persone hanno indipendentemente dalla comunità politica cui appartengono). Rawls ha dichiarato il suo debito nei confronti del foedus pacificum di Kant. Habermas ha tratto dal modello cosmopolitico di Per la pace perpetua la sua idea della costituzionalizzazione del diritto internazionale.
Se si considerano i due tentativi de Il diritto dei popoli di Rawls e dei saggi sulla pace perpetua, sul diritto cosmopolitico e sulla costellazione postnazionale di Habermas, possiamo mettere a fuoco due modi distinti di rispondere alla sfida dell’estensione. (4) La prospettiva di Rawls è una prospettiva incentrata sulla giustizia che deve modellare i termini equi di cooperazione fra società, definite ciascuna come unità morale (i peoples, democratici o decenti che siano). Questo spiega in che senso, secondo Rawls, la questione centrale sia quella dell’interpretazione filosoficamente favorita del diritto internazionale, che renda giustizia al mutuo riconoscimento di eguaglianza di status fra unità politiche distinte. La questione per Rawls è quella dei criteri del giudizio per la condotta di stati nell’arena internazionale (con i difficili problemi della teoria non ideale, costituiti dalle coppie di guerra e pace e ricchezza e povertà).
Si osservi che il solo pezzo universalistico del puzzle è costituito da un sottoinsieme di diritti umani fondamentali, che ha il ruolo di vincolo sulle sovranità interne e conferisce risorse di legittimità alla condotta degli stati nell’arena internazionale. La prospettiva del diritto dei popoli di Rawls resta iscritta nel quadro delle relazioni internazionali vestfaliane con le varianti connesse al ridisegno del diritto e delle istituzioni internazionali del secondo dopoguerra. In questo senso, la proposta dell’ultimo Rawls esemplifica la concezione politica della giustizia. Il suo rifiuto di adottare la prospettiva e lo strumento della posizione originaria globale e di estendere il principio di differenza al di là dei confini di unità politiche e di strutture di base delle istituzioni fondamentali è coerente con l’assunzione centrale della concezione politica, secondo cui la giustizia sociale presuppone il riferimento a una comunità politica e, quindi, presuppone che il problema della giustificazione di istituzioni e pratiche sociali valga e si formuli come tale esclusivamente nei confronti dei partecipanti a una singola e particolare forma di vita collettiva.
L’idea non è quella di un mondo giusto. E’ piuttosto quella della società delle società giuste e dei termini equi della loro cooperazione nella durata. Sembra che, in questioni di giustizia globale, la proposta di Rawls possa funzionare al meglio come un terminus a quo. Ma non ci dà, a prima vista, indicazioni promettenti che ci prospettino, anche solo a tratti, la fisionomia del terminus ad quem.

5. La prospettiva di Habermas sembra tendere, invece, verso un’interpretazione cosmopolitica e, in particolare, a mettere a fuoco le ragioni del ridisegno delle istituzioni internazionali, a partire dall’Onu, in una sorta di divisione del lavoro funzionale fra livelli di governo o di istituzioni politiche. Una ridefinizione della geografia della sovranità e delle sovranità che, come abbiamo visto, sono strettamente connesse a diritti e giustizia. (Altri filosofi globalisti, che condividono la concezione cosmopolitica come Brian Barry o Thomas Pogge, Charles Beitz, David Held o Hottfried Hoeffe disegnano architetture da Weltrepublik, evitando accuratamente di misurarsi con la celebre espressione di biasimo kantiana nei confronti del governo mondiale, definito come il terribile dispotismo, incoerente e non rispondente alla varietà delle differenze delle lingue e delle religioni.)
E’ giusto riconoscere che Habermas non ha evitato di misurarsi con la difficoltà kantiana a proposito del rapporto fra concezione cosmopolitica e concezione politica della giustizia. Ma l’interpretazione che Habermas tende a favorire delle difficoltà kantiane mi sembra insoddisfacente. Habermas è convinto che Kant non sia riuscito a chiudere il suo teorema del diritto cosmopolitico (conversione dello ius gentium in ius cosmopoliticum), perché il suo problema era praticamente insolubile nel contesto vestfaliano delle sovranità. Secondo Habermas siamo noi, eredi, con tutta l’immeritata consapevolezza dei posteri, che possiamo esplorare questa possibilità con qualche probabilità di successo, perché ci accade di vivere nella costellazione postnazionale, sullo sfondo dell’erosione delle sovranità, della politica interna mondiale, della comunità di rischio. (Un pizzico di filosofia della storia è sempre all’opera nella prospettiva habermasiana.)
Credo che Habermas, nella sua prospettiva cosmopolitica, sottovaluti le ragioni dell’oscillazione kantiana a proposito di quali istituzioni politiche siano normativamente desiderabili su scala planetaria. Sono convinto che le oscillazioni kantiane inneschino una tensione essenziale con l’alternativa hobbesiana. E penso che questa tensione essenziale sia ineludibile e feconda, se il nostro scopo è quello di esplorare le possibilità dell’estensione e le strade, i metodi per approssimarci ad una concezione plausibile e coerente della giustizia globale.

6. C’è un punto su cui Hobbes e Kant, e i loro eredi, sono d’accordo: che vi è una ragione (di tipo naturalmente diverso) alla base e a favore del contratto sociale e dell’istituzione dell’autorità politica, connessa all’avere le persone interessi o diritti. Vorrei allora concludere indicando, in modo forse sorprendente, l’importanza di almeno una considerazione realistica. Le istituzioni non sorgono e non guadagnano stabilità nella durata attraverso la virtù della giustizia. Esse sono esiti contingenti di processi e di negoziati, di conflitti e di trattati di pace, che riflettono le circostanze dell’ingiustizia. Su questo Nagel ha ragione: le vie per la giustizia muovono dal fatto dell’ingiustizia. Il punto è che, solo sotto la condizione dell’esservi istituzioni, si avanza la domanda a proposito della loro legittimità e della loro giustizia. Come ha sottolineato Bernard Williams, è perché vi sono istituzioni che si apre il campo della loro contestabilità e della richiesta variegata della loro giustificazione da parte di coloro su cui le istituzioni esercitano potere e sulle cui vite hanno effetti.
Sono processi di questo genere che, dopo tutto, hanno fatto degli stati, degli stati-nazione, i luoghi par excellence della legittimità politica e i campi della contestabilità nel tempo, gli spazi della ridefinizione dei contratti sociali. Questo, alle nostre spalle, nella vicenda moderna degli stati. Nella costellazione nazionale.
Mi chiedo, ancora una volta: perché le cose dovrebbero stranamente essere così diverse nel caso cruciale della costellazione postnazionale? Ma se è così, posso concludere richiamando la logica dei miei esercizi di prolegomena delle lezioni di La bellezza e gli oppressi, il passo, il primo passo nella direzione di una teoria della giustizia globale, alla luce delle tre idee fondamentali proposte, sarà quello i) di saggiare la legittimità delle istituzioni internazionali che vi sono, modellate dalla costellazione nazionale, e ii) anticipare, scrutando i segni dei tempi e non rinunciando ad esplorare possibilità, la validità delle istituzioni internazionali che dovremmo poter desiderare nel futuro.
Per quanto riguarda i), istituzioni e pratiche esistenti dovrebbero essere sottoposte a verifica di legittimità sotto il profilo del grado maggiore o minore di inclusività nei confronti di tutti coloro sui cui prospetti di vita esse hanno effetti, alla luce dell’idea di giustizia procedurale di base. Allo stesso modo, istituzioni e pratiche esistenti dovrebbero essere sottoposte a verifica di legittimità adottando, per la valutazione degli effetti sui prospetti di vita delle persone, il criterio dello sviluppo come libertà nella versione agente-paziente. Per quanto riguarda ii), la prospettiva dell’utopia ragionevole ci guida a sua volta nell’esame e nello scrutinio delle possibilità alternative, entro la cornice delle istituzioni e delle pratiche esistenti, sottoposte alla verifica della maggiore o minore legittimità e accettabilità per ragioni di giustizia. In tal modo, potremmo aderire alla massima di Stanley Hofmann e muovere, passo dopo passo, da come le cose stanno a come potrebbero stare, alla luce di un’idea di giustizia globale. Così l’esercizio paziente del saggiare legittimità e dell’anticipare validità, alla luce della tensione essenziale fra gli eredi di Hobbes e gli eredi di Kant fra concezione politica e concezione cosmopolitica della giustizia globale, delinea qualcosa come un percorso dal presente al futuro. Un futuro semplicemente meno inaccettabile e ingiusto del presente. Un futuro possibile, anche in tempi molto difficili.
Perché non dovremmo dimenticare che, dopo tutto, come diceva a lezione il professore di Geografia fisica di Koenigsberg ai tempi del recente Illuminismo europeo, dato che la terra è tonda, noi siamo dei tipi destinati prima o poi ad incontrarci.
Salvatore Veca


NOTE
(1) Cfr. T. Nagel, The Problem of Global Justice, “Philosophy and Public Affairs”, 33, 2, 2005, pp. 113-147.
(2) Cfr. La priorità del male e l’offerta filosofica, Feltrinelli, Milano 2005.
(3) Cfr. La bellezza e gli oppressi, Feltrinelli, Milano 2002.
(4) Cfr. J. Rawls, Il diritto dei popoli, tr. it. di G. Ferranti, Edizioni di Comunità, Torino 2001; J. Habermas, L’inclusione dell’altro, tr. it. di L. Ceppa, Feltrinelli, Milano 1998; L’Occidente diviso, tr. it. di M. Carpitella, Laterza, Roma-Bari 2004.





Europa e mondo

di Biagio De Giovanni

L’Europa e la filosofia

1. La filosofia non è mai stata un impaccio per l’Europa, e tanto meno un lusso. E’ piuttosto ciò che sempre le ha dato identità, nel senso che Federico Chabod intuì quando scrisse, nella sua “Storia dell’idea di Europa” (ebbi la fortuna di ascoltare quella sua lezione), che essere europei, appartenere all’Europa, ha implicato sempre un atto di “coscienza”, un processo di riconoscimento riflessivo, si potrebbe dire, che si sviluppava intorno a una idea centrale, interamente erede della grecità, che opponeva al dispotismo asiatico la libertà europea. Antico tema, antica forma di coscienza e di autorappresentazione, risalente a Erodoto e alle fonti della storiografia greca e che si è prolungata nel tempo, mutando naturalmente secondo i tempi, ma conservando quel costante riferimento alla libertà e quel costante riconoscersi per opposizione, per contrasto, che ha restituito il senso di una identità mobile, diveniente, produttiva di sé. Attraverso la filosofia, si può dire, l’Europa ha prodotto se stessa, la propria coscienza, al punto che i suoi confini geografici sono stati sempre mobili, anch’essi in divenire, come se il problema dell’identità europea non fosse consegnato alle frontiere, quanto alla capacità di pensare il proprio spazio intorno al principio della libertà, uno spazio dunque in sé mobile e aperto. Qui è dunque il nodo originario dell’identità europea, ciò che le ha permesso di prendere il via, di costruire la propria autonomia dalla ferrea staticità asiatica che, gigantesca, incombeva su di essa, pronta ad affermare la propria egemonia. Nello scontro fra la polis greca e l’impero persiano c’è, come intorno a un nodo essenziale, il senso di quella opposizione calata drammaticamente nella lotta e nel contrasto. Quel piccolo promontorio dell’Asia che si chiamò “Europa” è da lì che conquistò se stesso, la propria autonomia, e anche la propria violenta volontà di affermazione. Da lì, si potrebbe dire, il suo logos, sempre frammisto alla sua potenza. Ma in quel logos, definito nei grandi testi della filosofia greca, ciò che emergeva era il senso del “divenire”, di una verità per niente statica, ma come esposta al fare e alla creazione di un mondo. Il divenire è diventato il senso di Europa, quello che ha raccolto problematicamente la tensione della sua libertà. E’ su questo tema, con riferimento alla coscienza dell’Europa moderna, e a Hegel in particolare, che voglio svolgere alcune riflessioni.

2. Hegel è il punto più alto di una visione eurocentrica della storia. Dopo di lui, le cose incominciarono a cambiare, come vedremo più avanti e tutto l’asse della rappresentazione europea incominciò a spostarsi in altra direzione. In Hegel maturò al massimo grado quel rapporto intrinseco fra l’Europa e la filosofia che oggi torna di particolare attualità in una congiuntura che è tutta da pensare. E la cosa particolarmente interessante, per la nostra breve ricostruzione, sta nel fatto che la sua veduta si formò nella contrapposizione oriente-occidente, in una idea spaziale della filosofia della storia del mondo ispirata certamente alle rappresentazioni di Karl Ritter, come Hegel stesso riconosce in più punti. Da Oriente a Occidente, si muoveva il corso della storia, secondo un moto che ha nella libertà il principio che ne rappresenta la natura. Nell’Oriente, tutto è statico; in Occidente, quell’Uno immobile in se stesso si rompe nel molteplice, e si fa vita e divenire. Straordinari testi della “Filosofia della storia” indicano questo movimento. “La magnificenza dell’intuizione orientale ci è innanzi agli occhi: l’intuizione di quest’Uno, di questa sostanza cui tutto appartiene, da cui nulla ancora si è separato”. E la cosa che voglio qui particolarmente valorizzare è che questa visione orientale dell’Uno si riflette immediatamente nell’organizzazione del potere. Hegel infatti aggiunge: “L’idea fondamentale è quella del potere saldamente e organicamente costituito, padrone di tutte le ricchezze della fantasia e della natura. La libertà soggettiva non vi è ancora giunta a veder soddisfatta la sua esigenza”. E l’ulteriore conseguenza suona come un improvviso calarsi del suo discorso in una rappresentazione della storia concreta e di quello che poteva essere il suo destino. “Perciò accanto agli edifici della sostanzialità orientale si trovano anche le orde selvagge, che dall’orlo dell’altipiano calano sugli edifici della quiete, li devastano e distruggono, così da rendere brullo il suolo”. “Sostanzialità” e “orda” si accavallano l’una sull’altra, quasi a mostrare la rappresentazione del mondo prima della Mediazione, che si può incominciare a immaginare quando il mondo accoglie in sé la molteplicità, e la Sostanzialità scende dal suo trono per misurarsi con l’irrompere della libertà soggettiva. Qui, in questo punto preciso, si delinea lo strappo dell’Occidente, di Europa. Lo strappo: giacchè solo questa espressione, che ha una sua fascinosa violenza, può lasciar intendere il senso aurorale di una idea nascente la cui forza sta proprio nel suo riconoscersi per opposizione, e nel suo costruirsi esponendosi alla molteplicità e al divenire, e insomma nel suo strapparsi dalla magnificenza dell’Uno, che da questo punto di vista appare destinato all’entropia. Anche qui, secondo l’antica rappresentazione greca, l’Europa si forma per contrasto, per opposizione, distaccandosi da quella immobilità asiatica che voleva fagocitarla, e riconoscendosi in un altro logos, in un’altra forma della ragionamento e del linguaggio che è data dall’Uno che diventa uno-molteplice. Ricordate la Sostanzialità orientale, citata un momento fa come l’immobile Uno che tutto vuol ricomprendere nella propria staticità? Lo strappo dell’Europa prende l’avvio non dalla semplice distruzione di quell’Uno, ma dal suo moltiplicarsi, dal suo diventare uno-molteplice, uno che si rompe in sé stesso nella propria differenza. Insomma, il passaggio non è dall’Uno al molteplice, ma dall’Uno all’uno-molteplice, dove il primo termine non è se non nella differenza, e l’identità non si chiude nella sua splendida magnificenza, ma si misura con la costruzione del mondo. Uno-molteplice, dunque: è comparsa la Mediazione, ciò che deve tenere insieme gli opposti, quella Mediazione che non poteva comparire e rappresentarsi finchè l’Uno si teneva stretto in se stesso, riparato e corazzato in sé. Ma l’ulteriore conseguenza, che Hegel sviluppa lungo tutta la sua opera, vera presa di coscienza che l’Europa sviluppa di se stessa, sta nel dire: se l’uno nasce come molteplice (è sempre molteplice), ciò indica che il momento dell’identità si può cogliere soltanto nel divenire, che l’identità non “è” semplicemente, ma è non-essendo, è “divenendo”, è identità che è, insieme, non-identità. Anche qui Hegel trae immediate conseguenze sulla natura e struttura del potere politico.In fondo, in una identità così concepita, essenziale diventa il tema del “riconoscimento”, nel senso che l’identità astratta (la magnificenza dell’Uno) basta a se stessa e tutto riduce sotto di sè, mentre l’identità in sé differente ha bisogno dell’alterità, e il suo compito sta nelle forme del riconoscimento di questa alterità che l’identità comprende dentro di sè, non deve ricercarla fiuori, all’esterno. Dicevo, conseguenze sulla natura e la struttura del potere politico. Non più “Sostanzialità” e “orda”, secondo l’icastica sintesi hegeliana, ma polis, luogo e spazio della mediazione. La polis è il luogo dove si realizza la continua mediazione fra l’uno e il molteplice, il luogo di nascita della libertà europea. Essa è la costruzione morale e politica che permette di battere la potenza distruttiva del tempo. “Così i greci parlano del dominio di Kronos, il tempo, che divora i suoi figli, cioè i fatti che essi stesso ha generati. Solo Zeus, il dio politico…ha vinto il tempo in quanto ha creato una consapevole opera morale, producendo lo stato”: è ancora la “Filosofia della storia” di Hegel a compiere questo passo decisivo, a ergere la polis (l’opera morale e statuale) contro la minaccia del nulla. La polis, dunque, all’origine di Europa, che diona all’Europa un tratto inconfondibile della sua idenrtità. Ma perché Hegel avverte quella necessità, e svolge quel passaggio? Non era possibile immaginare che fosse proprio la sostanzialità orientale a vincere la potenza distruttiva del tempo? Che fosse quell’Uno privo di differenza a segnare i confini fra l’eterno e il finito? No, perché quell’Uno segnava un falso confine fra il finito e l’eterno, immobilizzava questo e disperdeva l’altro (sostanzialità e orda) esponendolo alla inanità e al niente, mentre all’origine stesso della mediazione fra l’uno e il molteplice e della solida costruzione greca della polis, alla quale è consegnata la luminosità dell’origine, si disegna l’orizzonte che dà a questa “origine” il senso di una libertà che forma storia e riconoscimento, e ferma nella finitezza, nella diversità, il significato profondo di una identità.

3. E tuttavia quella proposizione di Hegel è rivelatrice di un problema decisivo. La polis vince la minaccia del nulla, ma da dove proviene questa minaccia che dunque grava sull’Europa? Perché Hegel sente il bisogno di porre il problema con intensità lungo pagine decisive non solo della “Filosofia della storia”? La ragione è tutta inscritta nelle movenze concettuali con le quali Hegel ha posto il problema del “cominciamento” e ha criticato ogni rappresentazione statica e meramente identitaria della stessa origine. La ragione è inscritta, dunque, proprio nella instabilità del fondamento che dà vita a tutto, nel fatto che esso è un fondamento che non fonda, o, per meglio dire, non è separato da ciò che fonda. L’identità (che dà vita alla filosofia e dà vita a Europa), ricordiamolo, è non-identica con sé, ma si rompe in lei stessa in diversità. Dunque, la scissione è in agguato. La crisi è possibile. All’origine, non c’è una garanzia statica, che peraltro, per le ragioni indicate, non sarebbe affatto una risposta persuasiva ma solo una falsa e immediata negazione della differenza. L’identità è fin dall’origine non-identità, perciò nasce con la potenzialità della crisi. E la cosa è tanto poco ipotetica e solo legata alla “natura” dell’identità, che avviene proprio che lo stesso tempo di Hegel sia tempo di scissione e di crisi. Ricordiamo tutti i passaggi iniziali della “Differenza fra i sistemi di Fichte e di Schelling”, ma non è qui il caso di insistere sul tema. Dato essenziale è rilevare che la minaccia del nulla sta tutta dentro quella logica del “divenire” che appartiene all’origine di Europa e dà la fisionomia alla sua storia. E’ come se Hegel presagisse ciò che Nietsche avrebbe detto, spezzando il nesso fra identico e non-identico, e rigettando nella pura forza l’origine di Europa e attraverso di essa fissando l’origine del nihilismo. Ma su questo, più avanti. Per ora resta da fermarsi con maggior precisione sulla domanda: come risponde Hegel a quella minaccia che sembra indebolire “l’origine”, e dunque mettere in discussione la forma stessa della libertà europea? Il suo sforzo sta anzitutto nel ribadire che, abolendo la staticità del fondamento “orientale”, non scompare la forza dell’essenza, e tutto non si riduce a un divenire privo di senso. Hegel scrive: “L’essenza è passata nell’esistenza, in quanto l’essenza come fondamento non si distingue più da sé come dal fondato, ossia in quanto quel fondamento si è tolto”. Il fondamento si è tolto, ma sta divenendo; l’identità è da sempre molteplice, ed essa si mette a rischio esponendosi al molteplice, ma cercando di non perdere il proprio rapporto con il logos e l’essenza. Qui è il senso dello strappo europeo dal principio orientale, e il traumatico cominciamento del rapporto tra sapere, filosofia e mondo, comin ciamento della filosofia e cominciamento di Europa. Perché traumatico? Ancora una volta, per la dimensione determinante del nulla. La realtà spunta da un abisso: perciò, nel cominciamento della logica, l’essere richiama il nulla, l’indeterminazione necessaria a una identità che non ha il fondamento dietro di sé. Ma val qui la pena di osservare che questa situazione segnala, insieme, la nascita della filosofia e la nascita dell’Europa come coscienza di sé. L’Europa è, come dicevo all’inizio, la propria filosofia, si produce come pensiero dell’identità di identità e non-identità (di unione di unione e non-unione, come Hegel scrisse nel “Frammento di Francoforte”), e da qui proviene il tratto creativo della sua storia, il fatto che essa non è ma si fa, produce spazi aperti, senza confini, si fa, si incarna, è insieme potenza e libertà proprio come incontro-contraddizione dell’uno e del molteplice. E qui si scopre anche la dimensione tragica e niente affatto conciliatoria della filosofia hegeliana che si muove (e fa muovere l’Europa identica alla propria filosofia, prodotta da essa) fra il logos che trattiene e “costituzionalizza” la potenza e la potenza che si libera dalle maglie del logos, in una visione insieme appropriativa del mondo e capace di riconoscimento universale.

4. Dove si definisce tutto questo scenario? Possiamo dire: nella dialettica del riconoscimento,e anzi meglio nella lotta per il riconoscimento a cui sono dedicate pagine famose della “Fenomenologia dello spirito”. Anche qui, strappo dal principio “orientale”, che non implicava questa dimensione, essendo l’Uno corazzato nella propria identità, non bisognoso di riconoscimento, ma autofondato nella sua “magnificenza”. L’Uno che, invece, è intrinsecamente molteplice germina riconoscendo la propria molteplicità, l’interna diversità che lo fa essere. E’ questa diversità che dà i colori del mondo. Ma essa non è un dato, e per la sua stessa natura implica la diversità di ciascuno, il collocarsi della diversità nell’identità di ciascuno. Ciascuna diversità è di fronte all’altra, e il tema del riconoscimento si fa strada da sé, come intrinsecamente legato a quell’uno-molteplice da cui tutto comincia e che è la sostanza dello strappo europeo contro l’immobilità asiatica. Il riconoscimento diventa lotta per il riconoscimento perché le diversità non sono neutralmente attraversate dalla vita, ma ciascuna vuol diventare coscienza di sé e si presenta di fronte all’altro come coscienza di sè, autocoscienza. Ecco lo splendido commento di Hyppolite: “Perché la certezza dell’autocoscienza non resti soggettiva, è necessario che l’altro si presenti come questa pura certezza di sé. Questi due “me” concreti che si affrontano devono riconoscersi reciprocamente come tali che non sono solo “cose viventi”, e questo riconoscimento non deve essere un riconoscimento solo formale”. Dunque, la lotta per il riconoscimento si sviluppa secondo una logica intrinseca che è la seguente: la vita deve diventare autocoscienza, coscienza di sé d’ognuno, ma, nell’atto in cui ogni vita diventa coscienza di sé, la libertà di ciascuno diventa la condizione della libertà di tutti. E’ naturale che ci si riferisca qui alla dialettica servo-padrone dove si disegna l’orizzonte dell’Europa moderna. Il risultato di questa dialettica, di questa lotta estrema, per la vita e per la morte, è appunto il reciproco riconoscimento, il cui germe è in quella origine che dice: mai l’identità è semplice identità con se stessa, mai l’uno è semplice opposizione al molteplice. Il risultato è, dunque, che solo chi riconosce sé riconosce l’altro, solo chi riconosce l’altro riconosce sé. La libertà diventa mondo, ecco l’esito della “Filosofia della storia” e della lettura hegeliana della rivoluzione francese. La libertà interna al riconoscimento reciproco si fa polis e Stato, quella polis che vince la potenza distruttiva del tempo. L’Europa moderna è uscita dal suo bozzolo, combattendo l’ultima sua battaglia contro la libertà assoluta e il terrore giacobino produttivi di morte, singolarmente da Hegel attribuiti a una sorta di ingresso del principio maomettano e orientale nella storia d’Europa. Dunque, fine della storia? Non è questo l’esito hegeliano ed è assai importante ribadirlo nel momento in cui la filosofia ricomincia a occuparsi di Europa, e cerca di riprendere fra le sue mani il filo di una storia che vuol tornare (forse) a misurarsi con il mondo. La libertà che si fa mondo apre una storia nuova. Hegel non è il filosofo della conciliazione della storia con se stessa, ed egli è ben esperto della tragicità implicita nella realizzazione della libertà (la libertà che si fa mondo, che chiede di farsi mondo). L’abisso del nulla e il “novum” da creare sono ambedue interni alla dialettica della libertà. La mediazione e la scissione sono compresenti, e nessun armonioso finale è previsto.

5. L’orizzonte di Hegel, così disegnato, è esposto alle filosofie della decostruzione. E’ esposto alla crisi, precisamente come esposta alla crisi è Europa che coincide con filosofia, e che è implicata nelle sorti di questa. Perchè? E’ quell’originario crinale su cui germina e si sviluppa la coscienza europea che lo spiega. Quella identità non identica a se stessa che espone il logos europeo alla potenza e alla violenza. E’la mediazione a essere in discussione. La sua capacità di tenere insieme i suoi due poli, quelli che, tenuti insieme, danno vita alla polis, unità di logos e potenza, di libertà e forma (l’origine luminosa della grecità) e che tendono a scomporsi, a rompere la loro relazione. Da Nietsche, il processo va in questa direzione. La Grecia, da luminosa origine, tende a trasformarsi in abisso di potenza, e l’origine di Europa tende a collocarsi in questo abisso. E’ la non-identità a irrompere come pura potenza, pura apertura al divenire senza senso e senza direzione. La mediazione diventa impossibile e non c’è che da riconoscere la sua bancarotta. Non c’è più un’alba da riaccendere (l’alba della grecità) per rispondere alla scissione del tempo, ma c’è solo da riconoscere proprio questa scissione come costitutiva dell’umano. L’Europa è il nihilismo, la pura potenza che sviluppa se stessa, sospesa fra quella che Nietsche chiama la sua “virilizzazione” e la sua decadenza per la perdita di centralità che ne affligge la storia. Quella sovranità, che Hegel aveva visto come sinolo di logos e potenza, austera mediazione che dà forma alla vita, si trasforma in mera forma della violenza, e, presa in questa logica, annuncia la propria palinodia. Si sgretola come forma dello Stato, si fa “eccezione”, guerra, o si annulla nella vita, cercando le forme disperse del suo disciplinamento, asrcigno e privo di luce. Si può fare qualche nome, nel Novecento, che si costituisce nell’atmosfera di Nietsche anche quando sembra rifiutarlo. Bataille, che opera la decostruzione di Hegel attraverso il suo hegelismo “letterale”, assumendo il comunismo come l’ultima apparizione della sovranità, ormai esposta alla propria dissoluzione. Foucault, che fonda un corto circuito fra potere e vita tale da rompere l’idea di comunità politica e il suo logos. Schmitt, consapevole più di ogni altro della fine dell’eurocentrismo, e dunque di Hegel, e dunque di Europa, che immagina uno spazio del mondo senza forma, esposto a ogni rischio, privato di quel nomos che solo l’Europa aveva saputo dargli. Ma che cosa rappresentano, oggi, le assai percorse vie della biopolitica se non un processo dissolutivo della forma politica? Esse dichiarano di voler mettere in discussione l’intero paradignma storico-concettuale della filosofia politica moderna attraverso la sua radicale riduzione teorica. Ma non è anche, questo, il ritorno della finis Europae? Una riprova, si potrebbe aggiungere, di quella implicazione profonda dell’Europa nella sua filosofia che ne segna origine e destino.

6. Ora, la tesi che qui voglio brevemente esporre, è che andiamo forse verso l’esaurimento delle filosofie delle decostruzione. Che sta per iniziare una fase nuova nella riflessione dell’Europa su se stessa, e che la filosofia ne è, in parte, protagonista necessaria se è vero che attraverso la filosofia l’Europa ha prodotto la propria idea e si è dato un modo di pensare se stessa e il mondo. Se le filosofie della decostruzione tendono a coincidere con le filosofie della finis Europae, sono proprio queste filosofie, oggi, in sia pur problematica discussione. Quelle che ho chiamato, con qualche approssimazione, filosofie della decostruzione, commettono un errore di “storicismo”, vero paradosso per filosofie che dichiarano il proprio intento “topologico” e per filosofie che germinano dalla critica al sistema hegeliano che si considera storicistico per eccellenza.Vediamo meglio. L’esigenza topologica richiama, riflettendo sul rapporto passato-presente,. inclusione, compresenza, tempo del concetto, non tempo lineare come accumulazione di verità. Implica ripensamento dello spazio, compresenza nello spazio e nel tempo. Lo si voglia o no, il tempo dello storicismo è tempo lineare, che vede un “prima” e un “dopo” scanditi nettamente da superamenti e inveramenti. E’ invece proprio la necessità del metodo topico che qui intendo rivendicare, e muovere da questa rivendicazione per meglio comprendere i limiti delle filosofie della decostruzione. Assumendo questo atteggiamento, si vede che gli elementi della mediazione “sparsi e slogati”, per usare aggettivi vichiani, mantengono la loro permanenza entro lo scenario della crisi. Bisogna cercarli, inseguirli, auscultarli, nella consapevolezza che proprio la scissione profonda del nostro tempo ne richiede la necessità non come necessario elemento salvifico, ma come risposta alle tensioni catastrofiche del mondo. Non è necessario, insomma, che la nediazione si riappropri della storia, ma si deve sapere che la sua verticale caduta accentua le potenzialità catastrofiche insite nello scenario globale. Quello che le filosofie della decostruzione hanno lasciato dissolvere è il nesso potere-libertà, o affermando una libertà che coincide con i confini della vita, o sottoponendo la vita a un disciplinamento frammentato ed esteriore che spezza ogni riconoscimento possibile. Non si tratta di tornare alla vecchia mediazione, o. per dirla in breve, dì tornare a Hegel, ma di auscultare il suo pressante richiamo e riconoscere le sue possibili forme attuali.Lavorarare, sapendo che nessuna filosofia della storia garantisce questo lavoro, e che però la responsabilità verso il mondo lo impone.

7. Come si disegna oggi la scena globale? Non certo nella chiave di una omologazione universale, come si pensò un decennio fa all’incirca, quando questa forma di omologazione immaginata fu all’origine dell’idea che la storia fosse giunta alla fine. Certo, gli spazi sono diventati senza centro, “acosmici” come qualcuno dice. Ma il globalismo non mostra affatto una fisionomia omologante, e va piuttosto sviluppando una controfaccia “identitaria”, un ritorno fortissimo e diffuso di identità rivendicate, un nuovo fondamentalismo delle identità insomma, quasi che questo fenomeno sia la controfaccia dell’altro, e tendenze identitarie e tendenze omologanti si stringano in un nesso contrastato e gravido di rischi. Ma se le cose stanno così (e chi vuole approfondire il tema oggi può leggere il bel libro di Giacomo Marramao “Passaggio a occidente”), è proprio l’irrompere del ricordato radicalismo identitario, con tutto ciò che si trascina dietro di ritorni etnico-religiosi, di neo-nazionalismi a sfondo dispotico, e di fenomenologie le più diverse legate a questi atteggiamenti, a ridar corpo alla verità di Europa, e all’autoriflessione dell’Occidente su se stesso. E’ curiosa la cosa, e il nodo è difficile da districare: l’occidente è certamente all’origine del globalismo nato dalla dispersione del vecchio nomos della terra che soprattutto l’Europa diffuse, ma quell’occidente, che è alle origini del globalismo, è indotto, da questo stesso globalismo e dai suoi effetti, a ritornare su se stesso, e a riflettere su se stesso. Un terribile incastro, che si presenta come scenario storico: ma la storia fa questo e altro! Ora, che cosa si vuole intendere con questo? Che l’Europa (questa articolazione dell’occidente) non può non tornare a pensare sulla propria identità, pena la propria emarginazione. Ma, per l’Europa, pensare la propria identità implica uno sforzo di autoriflessione in grado di riportare all’attualità quella che è stata la sua verità, il suo logos. Per far ciò, forse essa deve disattendere le sirene delle filosofie decostruttive, i richiami suggestivi del loro lessico che sembra più adeguato di altri a stare nel presente, ma in un presente costruito nella neutralizzazione della politica, in uno spazio dove riconoscere l’altro è disconoscere sé, annullarsi in una scena sacrificale, o riconoscere sé è disconoscere l’altro, far violenza all’altro secondo il ritmo imposto alle cose dalla pura potenza. Essa si deve collocare in quello spazio dove torni contemporanea la lotta per il riconoscimento (reciproco) che muove dall’idea che riconoscere l’altro è anzitutto riconoscere se stesso e reciprocamente, e che nessun riconoscimento è possibile di là dal farsi di ogni vita coscienza di sé, autocoscienza, dove è la contemporaneità di Hegel e la possibilità della ripresa di un discorso sull’Europa e l’influenza che un’Europa non eurocentrica può avere sulla storia del mondo.

8. Come? In quali forme? La filosofia sta riprendendo questa ricerca, soprattutto nell’ultimo quindicennio, da quando cioè sono diventate insostenibili sia la retorica sul processo di costruzione dell’Europa sia il rigetto pregiudiziale di un suo ruolo mondiale. La filosofia, appunto, per le ragioni svolte nel testo. Che cosa può significare riconoscersi e riconoscere? Mettere al centro, insieme, il tema della libertà e quello della costituzionalizzazione dell’individuo vitale. L’uno-molteplice riprende la lotta contro l’astratta unicità, fonte di morte, in condizioni nelle quali l’identità delle diversità può portare a luce l’umanità dell’uomo e la costruzione della sua libertà. La ricchezza del pluriverso “costituzionalizzato” può rappresentare una risorsa decisiva per l’umanità del nostro tempo. Una risorsa in un certo senso eversiva, giacchè intende dare una svolta verso una lettura del globalismo che esalta la libera autocoscienza di tutti in un mondo interdipendente. Non sto affatto descrivendo una visione ecumenica del mondo. La lotta fa parte intrinsecamente del tema del riconoscimento; esso, nel mondo moderno, non avviene nel chiuso degli studi accademici, ma nel concreto di società e spazi oggi in grandioso disordine, carico di identità che non intendono collocarsi sul terreno di una riconosciuta universalità, di un compiuto logos delle differenze. La situazione del mondo è insieme ambigua e tragica. Vanno scomparendo gli spazi della neutralizzazione. Lo spazio torna a diventar politico e perciò ha bisogno della mediazione, non intesa come banale indifferenza né come mera registrazione delle “molte culture” che dovrebbero coesistere nella reciproca indifferenza. Ha ragione Cacciari: il riconoscimento è dell’identità nella sua radicalità, non si chiedono addolcimenti retorici, ma identità che vogliono esser se stesse non possono che essere in relazione nella universale interdipendenza. Ma dove l’identità si pone come irriconoscente unicità? Che cosa significa lottare per l’universalizzazione della liberttà? Non ho risposte pretenziose, ma la questione è centrale, come riconosce anche Amartya Sen. E’ in questo quadro che la filosofia europea ha ancora molto da dire. E’ qui che torna la contemporaneità di Hegel, filosofo dell’Europa e della mediazione fra logos e potenza. Ma che significa attualità della filosofia in una Europa non più eurocentrica? Ragioniamo sull’Europa, non sulla sua finis. Il tema è aperto. E anche le grandi domande che si annodano intorno a esso.

Biagio de Giovanni

sabato 3 marzo 2007

Elogio della partecipazione

di Vincenzo Moretti



E se tornassimo a ragionare di politica? Delle opportunità che essa rende disponibili per sottrarsi alla dittatura della necessità, aprire le porte alla dimensione della possibilità, dare senso a ciò che ci accade, ampliare la gamma delle opzioni tra le quali le persone possono effettivamente scegliere?

Una politica fatta di passione, responsabilità, lungimiranza (1), che non è indifferente alla distribuzione della felicità, è attenta a ciò che le persone riescono a essere e a fare effettivamente. Che soprattutto ritiene importanti i diritti, non sottovaluta i rischi del condizionamento sociale e dell’adattamento, non riduce la libertà a un semplice vantaggio, sa stabilire un ordine di priorità nella definizione dei criteri che dicono della riuscita reale e della libertà di riuscire di ciascuno.

Il racconto di donne e di uomini che hanno a cuore un interesse personale o collettivo, un ideale sociale, un progetto di società più felice o anche solo meno ingiusta e intendono operare, per variegate ragioni e motivazioni, con aspettative, tempi e impegno diversi, per vederli realizzati. Persone impegnate a dare senso alle loro vite, che a tale scopo cercano di stabilire connessioni con altri, come loro facenti parte di cerchie, gruppi, comunità, associazioni, sindacati, partiti e, per questa via, tentano di rendere più forti e stabili le reti sociali di cui fanno parte e, con esse, le norme di reciprocità e di fiducia che le sostengono. Persone che non intendono rassegnarsi all’idea della politica come pratica del meno peggio (2), che credono nella possibilità di dare agli altri senza rinunciare ad avere cura e a valorizzare sé stessi (3), che considerano il sapere non solo una delle più significative ricchezze della società contemporanea ma anche una delle opportunità più importanti a nostra disposizione per essere e sentirci liberi e per esercitare la solidarietà con altri esseri, come noi, umani (4).

Il racconto di persone che in sintonia con i propri convincimenti e, soprattutto, con le proprie azioni, ritengono giusto partecipare da attori alla costruzione del discorso pubblico. E di persone che invece no. Perché non hanno più né voglia né fiducia per fare domande alla politica. Perché se proprio sono costretti a farlo si ritrovano a chiedere favori. Perché non hanno più voglia di perdere tempo con gli infiniti paroloni dei teorici dell’eccellenza, e aspirano a vedere riconosciuti dal versante sociale, professionale ed economico gli sforzi di chi, come loro, punta sulla crescita di buone competenze intermedie. Perché vivono la politica come una sommatoria indistinta e poltigliosa di ingredienti diversi che più soggetti solo apparentemente alternativi propongono a cittadini sempre meno interessati a investire tempo, impegno, ingegno, in questa direzione. Ritengono che la discussione, il confronto con punti di vista diversi dai propri, lo sforzo di comprendere le ragioni degli altri, siano esercizi a volte nobili, più spesso ipocriti, sempre inutili. Non credono che le idee, le convinzioni, le azioni individuali possano realmente incidere, nell’ambito della sfera pubblica, sullo stato di cose esistenti.

L'idea è insomma quella di ragionare della natura della politica democratica, di quale ruolo o spazio essa continua ad avere nelle nostre vite, di come cambiano, più specificatamente nella parte ricca del mondo, i soggetti della politica democratica, di come e perché cittadini e cittadine governati possono agire politicamente, nello spazio pubblico, e in che modo sono in grado di scegliere e valutare i governanti. Di rispondere alla domanda fatidica relativa alle ragioni per le quali persone come noi, con i difetti, le delusioni, la confusione, la voglia di vivere, le aspettative di futuro che le contraddistinguono, dovrebbero sentire il dovere di pensare ed agire da cittadini, trovare ragioni e motivazioni per partecipare alla costruzione del discorso pubblico. Di spiegare in che senso e perché è auspicabile che si faccia almeno un passo avanti nella “transizione dal diritto internazionale classico, tuttora ancorato al modello ottocentesco dello Stato – Nazione, ad un nuovo ordine cosmopolitico, di cui dovrebbero diventare attori politici le istituzioni internazionali e le alleanze continentali” (6). E in che modo tutto questo può dare un contributo importante alla costruzione di un mondo senza superstati e senza nazionalismi esasperati.

Ci saranno d’aiuto in questo nostro cammino tanto le domande che riguardano la teoria politica descrittiva, quella che punta, per l’appunto, a descrivere come stanno le cose e non come esse dovrebbero stare alla luce di un qualche criterio, quanto quelle che chiamano in causa i nostri impegni normativi, i nostri criteri del giudizio politico, la nostra idea di società giusta o desiderabile. Incroceremo naturalmente domande più e meno usuali, più e meno complicate: in che senso il concetto di nazione ha perso buona parte del suo significato economico; perché è in campo una questione sociale strettamente connessa ai processi economici che siamo soliti definire globali; perché è importante lasciare tracce; in che senso se non abbiamo futuro diminuiscono le possibilità di connessione con gli altri e siamo più soli; perché rivendicare un mondo nel quale ci siano prima di tutto diritti per tutti non è soltanto una speranza o, peggio ancora, uno slogan.

Ci guiderà nel tentativo mai finito di rintracciare risposte possibili l’idea, sulla quale chi scrive e tornato più volte nel corso degli anni, che nella fase attuale di sviluppo della democrazia nei paesi economicamente sviluppati proprio la partecipazione dei cittadini alla costruzione del discorso pubblico assuma una rilevanza per molte ragioni decisiva. E la consapevolezza che una società possa essere definita più giusta o, meglio, meno ingiusta, se è in grado di favorire processi e progetti di inclusione, tanto dal versante culturale, quanto da quello politico, sociale, economico.

Il nostro punto di vista sarà quello di chi ritiene che esista una connessione forte tra la scarsità di luoghi, strutture, spazi pubblici a disposizione dei cittadini e lo stato di salute delle nostre declinanti democrazie, e da ciò fa discendere la necessità di creare occasioni e di individuare luoghi nei quali le persone si sentano responsabilmente coinvolte, non usate, nei quali sia possibile conoscere, proporre, operare, condividere, verificare opinioni, opzioni, scelte. E’ il punto di vista di chi è convinto che, nelle piccole cose di ogni giorno come nelle occasioni importanti della vita, il rispetto delle regole sia alla lunga la vera scelta razionale, non ideologica, conveniente. In questo meraviglioso e contraddittorio mondo, nel quale se scopri la penicillina nessuno ti conosce e se partecipi ad un reality show rischi di diventare una star, abbiamo ancora tanta strada da fare prima di poter comprendere davvero in che senso e perché “contribuire ad aumentare il capitale sociale vuol dire essere più intelligenti, più sani, più sicuri, più capaci di governare una democrazia giusta e stabile”. (7)

Cercheremo in ogni caso di individuare percorsi che in vario modo possano contribuire a determinare, e rendere credibile, una inversione di tendenza, e di evidenziare alcune esperienze, a nostro avviso molto significative, di istituzioni, movimenti, persone che anche in questi anni difficili non hanno rinunciato a stare in campo. Con il coraggio delle proprie idee e delle proprie scelte. Con la propria testa, il proprio carattere, le proprie mani.
L’auspicio è quello di contribuire anche per questa via all’affermazione, alla valorizzazione e, soprattutto, alla diffusione, di quelle buone pratiche di partecipazione, di cittadinanza e di governo che più hanno prodotto risultati positivi. E di concorrere a delineare i tratti di una società possibile, meno imperfetta, con un più basso indice di sofferenza sociale, nella quale ci si possa ritrovare a vivere, con altri, vite almeno un poco più felici, più serene, meno insoddisfatte.

Per tutte le ragioni fin qui accennate e molte altre ancora, ci accompagnerà nel nostro viaggio la non banale consapevolezza che in politica, così come del resto in tutte le cose della vita, qualunque punto di vista, per quanto autorevole, convincente, condivisibile possa essere, rimane, per l’appunto, soltanto uno dei punti di vista possibili. Che esistono sempre più soluzioni allo stesso problema e tale pluralità di risposte possibili mira, nel migliore dei casi, a ridurre l’ingiustizia e la sofferenza socialmente evitabile e non certo a massimizzare il bene. Che sulle strade della politica non esistono pozzi senza fondo e dunque per fare bisogna scegliere, il che vuol dire sostanzialmente definire ordini di priorità e stabilire criteri di urgenza il più possibile rispondenti o, più realisticamente, il meno possibile divergenti, dai valori, dagli interessi, talvolta dai ceti sociali che si ritiene utile o giusto privilegiare.

Ancora due messaggi prima di procedere oltre, con l’auspicio che possano fare da segnaposto, da promemoria da conservare da qualche parte, ai quali dedicare ogni tanto uno sguardo o una riflessione.
Il primo ci ricorda che l’idea di continuare a pensarsi più intelligenti della generazione precedente e più saggi di quella successiva non è in fondo una grande idea. Che è meglio piuttosto immaginare società nelle quali siano i figli che insegnano ai padri, i bambini agli adulti, gli alunni agli insegnanti. Società che sappiano valorizzare la genialità dei più piccoli, la loro capacità di avere una visione globale delle cose.
Il secondo è di Barry Lopez, che ha scritto che “le storie che raccontiamo alla fine si prendono cura di noi. Se ti arrivano delle storie, abbine cura. E impara a regalarle dove ce n’è bisogno. A volte una persona per sopravvivere ha bisogno di una storia più ancora che di cibo. Ecco perché inseriamo queste storie nella memoria gli uni degli altri. E’ il nostro modo di prenderci cura di noi stessi” (8).
Buona partecipazione.