lunedì 2 aprile 2007

La fotografia locale tra memoria e ricerca

di Bianca Arcangeli



A conclusione di un lavoro di ricerca che ha visto la schedatura e l’immissione nella banca dati digitale del Dipartimento di Sociologia e scienza della politica La memoria dei luoghi (tra poco consultabile anche in rete) dell’archivio dei fotografi Nuzzo di Vallo della Lucania, si è tenuto presso il Dipartimento di sociologia e scienza della politica dell’università di Salerno un incontro dal titolo: Una famiglia di fotografi del Cilento: i Nuzzo (Fisciano, 7 marzo 2007).
Pannelli, immagini, oggetti, parole, hanno restituito l’esperienza di due generazioni di fotografi ambulanti in un’area del Cilento ed il trasformarsi nel tempo dell’attività come dei suoi soggetti.
All’incontro, organizzato dal Dipartimento di sociologia e scienza della politica e dal Dipartimento di scienze della comunicazione e curato da Bianca Arcangeli, hanno partecipato tra gli altri: Vittorio Dini, Gino Frezza, Paola Capone, Vincenzo Esposito, Rosaria Gaudio, Furio Memoli, Francesco Nuzzo.
Quello che segue è il testo della relazione introduttiva di Bianca Arcangeli.


La fotografia locale tra memoria e ricerca.
Vecchi problemi e nuove opportunità


1. Una Fase Conclusa
L’avvento della rivoluzione digitale ha segnato di recente una cesura importante nella storia della fotografia e della produzione dell’immagine più in generale: una cesura tecnologica, indubbiamente, ma anche nei modi sociali di uso dell’immagine. Le conseguenze sono ben evidenti a tutti. Come già avvenuto nel caso di altre rivoluzioni tecnologiche, nella fotografia ed altrove, il prodursi di queste cesure, la consapevolezza di un percorso in parte concluso ci aiutano a guardare più liberamente e con maggiore distacco al passato, a riflettere su di una fase della storia dell’immagine che sembra ora avere non solo un inizio ben preciso, ma anche, per molti versi, un suo termine.
Ripercorrendo questa storia che si conclude sotto i nostri occhi, (sfogliando, ad esempio, qualcuno dei tanti volumi recentemente dedicati alla produzione fotografica italiana) guardando, in particolare, a quella fase che, dopo un’intensa sperimentazione vede un uso diffuso ed allargato della tecnica fotografica e che si estende per un secolo, dalla fine dell’Ottocento alla fine del Novecento, si è colpiti dalla sua varietà e complessità: dall’intrecciarsi, al suo interno, di molteplici livelli di produzione, dalla varietà di figure produttive di modi di circolazione e diffusione della produzione, di usi sociali dell’immagine.

2. Produzione nazionale e produzione locale.
Nell’epoca dell’immagine analogica il lavoro di importanti fotografi e studi fotografici, operanti a livello nazionale, in grandi centri urbani, talvolta in stretto collegamento con avanguardie internazionali, occupa uno spazio di grande rilievo: per gli alti livelli di qualità raggiunti, per il ruolo di modello di stile, di tecnica, esercitato nei confronti di altri operatori fotografici e, quindi, più in generale, per la messa a punto delle rappresentazioni visuali collettive. Sono infatti le immagini prodotte a questo livello quelle che, vuoi per la loro qualità,vuoi anche per le logiche di diffusione del prodotto, (perché diffuse e riprese nelle maggiori pubblicazioni nazionali, monografiche e periodiche) stabiliranno quei clichè che a lungo hanno rappresentato epoche, eventi, persone, territori. Per il nostro Mezzogiorno, ad esempio, e per gli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento è ben noto il ruolo giocato da alcuni produttori di fotografie attivi a livello nazionale, da Alinari, a Brogi, ad Anderson e Chauffourier, nello stabilire modi di vedere, stereotipi ed una rappresentazione visuale di lunga durata.
Al tempo stesso, tuttavia, il veloce diffondersi della tecnica fotografica sul territorio, con un movimento che, a partire da alcuni centri maggiori raggiunge progressivamente aree più lontane ed isolate, genera nuove geografie e gerarchie professionali. Con la diffusione nello spazio della tecnica fotografica, quel tempo unico che è quello dell’invenzione della fotografia e delle sue trasformazioni tecnologiche, un tempo che detta ovunque regole vincolanti, si frammenta in più specifiche cronologie e storie.
Queste ultime si sviluppano in relazione alle caratteristiche delle singole aree, ai modi di diffusione dell’invenzione, alle diverse figure che di questa tecnica si fanno in esse portatori, interpreti ed attuatori, agli usi sociali dell’immagine. Queste storie particolari hanno prodotto un’ abbondante e varia produzione che è definita spesso, in opposizione alla precedente, locale. Tale termine è per certi versi ingannevole: questa produzione resta infatti, spesso in vario contatto con quella nazionale, come testimoniano, ad esempio molte delle biografie dei fotografi di questo tipo; e tuttavia coglie anche i tratti distintivi del fenomeno: è una produzione “locale” perché opera di persone del luogo, siano essi professionisti, amatori e dilettanti, per i suoi contenuti, perché destinata in larga parte al consumo locale, perché diffusa infine prevalentemente attraverso circuiti locali.
Ora proprio questa produzione “locale”, lungi dal poter essere considerata pura ripetizione, eco, magari di qualità inferiore, di quella nazionale, appare di rilevante interesse per le scienze sociali, per storia, sociologia ed antropologia in particolare. Lello Mazzacane, ad esempio, ha sottolineato come proprio “in questa attività diffusa sul territorio ma scarsamente analizzata, se non del tutto ignorata, risieda la vera storia della fotografia meridionale, ma soprattutto siano rinvenibili le tracce più significative del suo uso e consumo specifico presso le diverse classi sociali”. (Cfr.. L.M, Il inedito dei fotografi di famiglia a Napoli, in L’Italia del Novecento, le fotografie e la storia, Gli album di famiglia, a cura di G.De Luna G.D’Autilia e L.Criscenti, Einaudi, Torino, 2006, p.226).
Queste affermazioni poggiano su di un ampio lavoro di ricerca: il Centro di ricerca audiovisuale della Federico II di Napoli, guidato dallo stesso Mazzacane ha portato avanti, a partire dal 1987 un’opera sistematica di censimento e ricognizione degli studi fotografici operanti nell’area meridionale dalla seconda metà dell’Ottocento in poi. Ed a questo lavoro si occorre aggiungere quello di altri studiosi, da tempo impegnati nella ricostruzione del lavoro di singoli fotografi e studi del Mezzogiorno o anche nell’analisi di alcuni generi fotografici, come ad esempio ad esempio quello delle fotografie di famiglia, (un lavoro di cui si trova abbondante traccia nell’ultimo volume della serie Einaudi Le fotografie e la storia, dedicato agli Album di famiglia).
E’ appunto in questo sforzo scientifico più generale, al quale contribuiscono ricercatori di differenti aree disciplinari, che si inserisce anche il lavoro di ricerca svolto sul fondo Nuzzo, che racchiude le immagini scattate da Umberto (1903-1980 ) dai figli Aniello, Filippo e Francesco, quest’ultimo oggi proprietario di uno studio fotografico a Vallo della Lucania. Parte dei materiali, contenuti in buste e scatole alcune delle quali andate perdute, sono stati faticosamente riordinati ed identificati con l’aiuto del fotografo stesso e poi immessi nella banca dati digitale creata presso il Dipartimento di Sociologia e dedicata alla memoria dei luoghi, una banca nella quale confluiscono i prodotti di ricerche visuali realizzate sul territorio di docenti e studenti. Essa consente di salvare, sia pure solo in formato digitale, un vasto patrimonio di conoscenze e di immagini, lo rende visibile agli studiosi e accessibile anche, grazie alla rete ad un pubblico più vasto ed agli stessi abitanti dei luoghi di provenienza dell’immagine.

3. Il fotografo ambulante ed il suo lavoro.
Nell’ambito della fotografia locale, e di quella in particolare dei piccoli paesi delle aree di collina e montagna o interne, un posto di rilievo spetta nel Novecento, anche dopo gli anni ’50, all’opera del fotografo ambulante, a volte anche possessore di uno studio proprio. E’ questo appunto il caso della famiglia Nuzzo, di Umberto e dei suoi figli, dei quali oggi parleremo, e dei tanti fotografi del Cilento che essi rappresentano e che speriamo di raggiungere con il nostro lavoro. Cosa sappiamo dunque della loro opera? E soprattutto, e scendendo più in dettaglio, perché questa produzione è interessante per lo scienziato sociale ma anche per il territorio e le sue diverse componenti?
Senza fare un’ esposizione sistematica dei risultati delle ricerche più e meno recenti basterà qui far riferimento ad alcuni fondi faticosamente salvati grazie ad un’attenzione generosa di comuni, province, regioni ed enti vari: i risultati di questo lavoro, di grande interesse, danno qualche risposta alle nostre domande ma mostrano anche con chiarezza alcuni dei problemi con i quali bisogna confrontarsi.
Pensando dunque ai fotografi ambulanti, ed ad alcune iniziative recenti, ne ricorderò giusto tre. La prima, è la mostra dedicata a Cuneo, nel 2003, all’opera di Leonilda Prato (1875-1958) (Mostra a cura dell’Istituto storico della Resistenza e della Società contemporanea in provincia di Cuneo, Museo Civico, Cuneo 19 nov.7 dicembre 2003, catalogo a cura di Alessandra Demichelis, Cuneo, 2003). Figlia di una tessitrice e di un calzolaio, donna della montagna tra Piemonte e Liguria, Leonilda apprese per caso, da un fotografo austriaco incontrato in Svizzera nel suo peregrinare al seguito del marito, musicista ambulante, l’arte della fotografia; e fu fotografa ambulante al seguito del marito, poi, ritornata in paese, fotografa delle sue genti. Di lei la tradizione orale conserva ancora qualche immagine, da anziana: “ I capelli erano bianchi e soffici, e lei li portava raccolti in una crocchia. Sistemava la macchina agli angoli del paese e scattava le fotografie, come aveva fatto tutta la vita, ma non se li faceva pagare, i ritratti: la gente di campagna le portava una formaggetta, cose così. Qualche volta la sera, raggiungeva le famiglie riunite per le veglie e cantava, accompagnandosi con la chitarra. Aveva una bella voce, Leonilda…. “(ivi p. 1). Del suo lavoro ci restano circa 3000 lastre, tutte del periodo trascorso in paese, tutte prive di riferimenti, annotazioni, didascalie.
La seconda è la recentissima mostra dedicata a Bologna all’opera di Enrico Pasquali, (1923-2002), muratore, stradino, pompiere e aiuto tipografo ma anche dal 1947 fotografo ambulante, e poi dal 1950 in società con Ermenegildo Zuppiroli, proprietario di uno studio fotografico a Medicina. Pasquali con le sue numerosissime immagini, ora depositate presso l’Archivio della Cineteca di Bologna che ha curato la mostra (Bologna, 21 ottobre 2006/ 29 gennaio 2007: www.cinetecadibologna.it ) ci restituisce la vita delle popolazioni rurali dell’appennino emiliano degli anni cinquanta e sessanta,
La terza iniziativa viene dal Mezzogiorno ed illustra l’archivio di Prospero di Nubila (1902-1989) fotografo di Francavilla sul Sinni, Trecento stampe e trecento sessantatrè lastre di vario formato ci raccontano nel volume curato da M.R. M.Romaniello.(Lo sguardo ritrovato. Condizione contadina e vita comunitaria nelle fotografie di Prospero di Nubila,, a cura di Maria Rosaria Romaniello, Matera, Antonio Capuano Editrice 2000) il suo mestiere di fotografo, ambulante e di studio, e la vita di una comunità.
Questi tre esempi, tutti alquanto recenti, attestano l’ interesse crescente degli studiosi e del pubblico per questa figura, ma consentono anche qualche riflessione più generale. Al di là della diversità dei loro percorsi biografici, dei tempi, dei luoghi di riferimento, ciò che accomuna le biografie ed il lavoro di questi tre fotografi è il rapporto che si stabilisce tra fotografo e la realtà ripresa. Il fotografo, infatti, in questi casi, è parte integrante della comunità fotografata, è inserito stabilmente in essa e con essa intrattiene stretti rapporti. Il suo sguardo è interno alla comunità stessa, uno sguardo complice è stato detto, lo sguardo di un osservatore partecipante o di un partecipante osservatore. Muovendo dall’interno e spesso dal basso, in una prospettiva simile a quella della gente comune alla quale appartiene, l’obiettivo del fotografo ripropone e rappresenta i luoghi simbolo, gli eventi importanti per la vita locale ed i valori in generale della comunità. Tutto questo rende la fotografia locale significativamente diversa da quella di eventuali fotografi importanti, esterni alla comunità e ne fa una fonte privilegiata per lo studio delle rappresentazioni e delle identità collettive. Né solo questi sono i motivi di interesse. La fotografia “locale” ha infatti anche un’importante valore documentario: ad essa dobbiamo molto spesso, in assenza di improbabili sguardi esterni, le uniche immagini disponibili di luoghi ormai trasformati, di eventi un tempo centrali per l’economia locale, come fiere e feste, di riti processionali, di lavori stradali che hanno cambiato la vita delle popolazioni, di mestieri scomparsi. Penso ad esempio a tante delle foto dei Nuzzo che documentano processioni cilentane, ma anche ad altre fotografie contenute nella banca dati, a quelle ad esempio provenienti dal Fondo Dini, che documentano il lavoro degli ingegneri Pasquale e Giuseppe Pistilli per la costruzione di strade del Cilento, penso, per i mestieri scomparsi, alle immagini della miniera di ittiolo di Giffoni Valle Piana, da tempo chiusa, a quelle delle fabbriche di neve di Monteforte etc.
Questa memoria fotografica locale, infine, svolge spesso un ruolo centrale nel salvataggio e nel recupero di altre memorie visuali anteriori.
Del lavoro di tanti piccoli fotografi che hanno lavorato nel Mezzogiorno si è persa oggi in molti casi financo la memoria. Poche immagini, qualche nome sopravvivono talvolta, solo grazie alla memoria orale ed alle collezioni familiari oppure attraverso il lavoro di altri fotografi dell’area, che quell’opera hanno riprodotto, non sempre tuttavia conservando indicazioni precise sull’attività originaria. Quest’opera di riproduzione, di perpetuazione e tradizione di memorie più antiche, è appunto un altro elemento che rende di grande valore l’opera del fotografo locale. A Giffoni V.P. ad esempio, uno degli attuali fotografi, Costantino Cianciulli, ha integrato nel proprio archivio, in originale o in riproduzione, numerose immagini pazientemente ritrovate, talvolta in abitazioni abbandonate, tra le quali quelle del fotografo D’Elia dei primi del Novecento. E questa attività paziente di riproduzione, condotta ora su richiesta del cliente ora per proprio interesse, è ben presente, sia pure in modo meno sistematico, nello stesso fondo Nuzzo, nel quale si trova ad esempio la riproduzione di una foto di Giuseppe Fusco del 1888, uno dei primi fotografi di Vallo, e caratterizza del resto l’attività di quasi tutti i fotografi soprattutto operanti in centri medi e piccoli .

4. La memoria minacciata.
Il fotografo locale gioca dunque un ruolo di tutto rilievo, complesso ed a vari livelli nella formazione e nella trasmissione della memoria collettiva. Ed è tuttavia proprio a questo livello della produzione fotografica che la trasmissione della memoria appare più seriamente minacciata. Da noi individui, comuni, soggetti diversi sono spesso lasciati soli a tutelare questo patrimonio in un’opera per la quale non posseggono le indispensabili conoscenze e risorse. Sono poche, infatti, nel mezzogiorno, bisogna dirlo, le strutture di raccolta e preservazione di questi materiali e manca, tra quelle esistenti, un lavoro di coordinamento e soprattutto uno sforzo di raccolta sul territorio, o almeno di guida e sostegno alle iniziative dello stesso. Di fronte alla quantità dei materiali, alla difficoltà di una loro catalogazione e preservazione gli eredi di tanti piccoli fondi si arrendono ed abbandonano materiali che sembrano inutili ed inutilizzabili e che tali divengono rapidamente.
La memoria fotografica locale, quella dei piccoli fotografi di paese in particolare della quale si è parlato, ci giunge dunque, spesso, deteriorata nei suoi fragili supporti, mutilata, e priva di parti essenziali, di quel riferimento al contesto che è prezioso per il suo utilizzo, ancor più spesso non ci giunge affatto. La fragilità dovuta alla natura stessa dei suoi supporti che richiedono metodi scientifici di protezione e strutture di non facile allestimento genera perdite regolari e continue. E quella che ci giunge, abbiamo difficoltà a tramandarla.
Si perde così, del tutto o in parte, un patrimonio prezioso per la ricerca e per la memoria e l’ identità collettiva. A questo bisogna reagire, con un lavoro collettivo che tenga insieme ricerca, amministrazioni, soggetti privati e pubblici e che cerchi, costruisca e richieda soluzioni valide per la tutela di questi beni. In attesa che questo si verifichi, in attesa di poter preservare davvero, anche nell’originale, questi materiali, la proposta di banche dati digitali relative a singole aree, a quella cilentana ad esempio, sembra almeno consentire un salvataggio parziale della nostra memoria locale a forte rischio di depauperamento.

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