di Carlo Sini
Il futuro della democrazia: tema complicato, ampio, per cui ho dovuto fare delle scelte, ho predisposto un cammino, un piccolo cammino, che ho articolato in due momenti, in due domande. La prima si potrebbe formulare così: qual è il futuro desiderabile per la democrazia? Il che significa già presupporre che molte cose non vanno nella direzione della democrazia.
E la seconda questione è: quali sono le condizioni di possibilità perché questo futuro, augurabile e desiderabile, trovi appunto realizzazione?
Credo, anzitutto, che dobbiamo avere chiaro perché parliamo di un futuro della democrazia dando, in qualche misura, per scontato che questo sia il problema politico attuale e dell’immediato futuro, e non soltanto immediato. Voglio dire, siamo tutti convinti che non abbiamo altro futuro che non la democrazia? Ecco, io convinto di sì. Ma mi rendo conto che non è possibile una tale affermazione senza una giustificazione, in un campo così opinabile e controverso. E allora se è vero che il futuro politico dei popoli della terra è quello di una democrazia planetaria, di una democrazia universale - ambigua espressione che, come tutte le espressioni, può essere giocata talvolta con malizia, o come scudo di interessi che non coincidono con quello che si vorrebbe comunicare con queste espressioni - questa democrazia che si auspica con forza diventi appannaggio di tutti i popoli, di tutte le culture, di tutte le etnie, di tutte le tradizioni nelle diverse antichità religiose che ancora sono presenti, che democrazia è? Cosa intendiamo quando immaginiamo una democrazia universale?
Questo già sarebbe un tema sul quale confrontarsi a lungo. Io ho individuato quattro elementi. Spero di essere stato felice in questa individuazione. Quattro elementi che, a mio avviso, rendono la democrazia un tipo di governo irrinunciabile per quello che concerne il nostro futuro. Quattro condizioni, diciamo così, che se realizzate non eliminano la discussione sulla democrazia. Questo è il governo dei popoli che vorremmo tutti, e che si identifica in un ideale democratico, attraverso quattro – ma potrebbero essere di più – elementi a mio avviso condivisibili, e condivisi, largamente condivisi nella attualità della vita sul pianeta.
Primo elemento: democrazia significa libertà dell’individuo nelle sue scelte. Mai come in un regime democratico moderno la vita individuale è stata esaltata, rispettata, sollecitata, anche per certi versi corteggiata. L’individuo deve essere libero di scegliere, deve essere colui che è padrone del proprio destino, e che deve avere le condizioni di possibilità per la realizzazione dei suoi ideali, dei suoi desideri, di una vita felice e dignitosa. Questo, direi, non accade in altri regimi, non è accaduto in passato in regimi che hanno avuto magari altri meriti, altre virtù, che possiamo anche invidiare. Mancava però questa dignità e libertà dell’individuo nelle sue scelte di vita, la libertà di un individuo che non è sottomesso a quello che gli economisti chiamano “la società del dono”, che ha tante virtù, ripeto, ma che ha però gli aspetti negativi di vincolare gli individui ad un patto di restituzione infinita. Io sono infinitamente in debito nei confronti del padre, della madre, del nonno, della bisnonna, del re, del sovrano... sono sempre in debito. Per tutta la vita io devo restituire con la mia vita la vita che mi è stata data? Ecco, questa cosa con la democrazia moderna, con l’età moderna, è finita. L’individuo ha certamente dei debiti, ma ha anche il diritto alla propria vita personale, alla propria libertà di scelta personale. Ed è una cosa così importante che credo che nessuno di noi – se tornasse indietro di cent’anni, centocinquant’anni – ce la farebbe a vivere in quell’altro mondo pur con tutta la nostalgia che talvolta i mondi del passato suscitano per tante ragioni etiche, estetiche, morali, religiose. Tutto quello che si vuole, però non ce la faremmo, non riusciremmo più a vivere in quella costrizione dove l’individuo non è padrone del suo destino. Questo disse Kant, meravigliosamente, quando parlava dell’Illuminismo e della rivoluzione illuministica: “Finalmente l’individuo diventa libero di decidere per la sua vita”. Ecco, questo è un punto ineliminabile, mi pare, di un ideale democratico.
Un secondo punto sono quelle che si chiamano le “garanzie giuridiche”. La democrazia è costituita, è costruita su una serie di garanzie giuridiche e di garanzie economiche: diritto al lavoro, ma anche garanzia di non poter essere arrestato, inquisito senza processo, senza giusta causa, ecc., ecc.. Tutta una serie di garanzie formali che sono appannaggio tipico della battaglia moderna per la democrazia, e che di nuovo, io credo, costituiscono un punto ineliminabile nel senso che se queste non sono realizzate, non siamo di fronte a una reale vita democratica.
Terzo punto, che mi sembra, almeno a parole, condiviso in tutte le culture dell’Occidente e ampiamente, come dire, in espansione anche in altre culture, magari con difficoltà di espressione, con difficoltà di affermazione, ma nei cuori ben saldamente iscritto, soprattutto nei cuori dell’altra metà del cielo: la pari dignità delle donne. Ecco, questa è un’altra cosa fondamentale della democrazia. Senza la quale non si può immaginare vita democratica.
E l’ultima cosa – come è ovvio – la partecipazione politica; il diritto di una partecipazione, il diritto/dovere di una partecipazione politica attiva, di una capacità di autodecisione politica, e non soltanto privata, della vita privata.
Mi fermerei a questi quattro elementi, se ne possono aggiungere altri, come è ovvio, e questi stessi si possono articolare in tanti modi. Ma questi quattro sono quelli che, se realizzati, renderebbero il governo democratico della vita umana assolutamente preferibile, assolutamente idealmente augurabile, quello che nessuna tradizione, nessun popolo oggi potrebbe rifiutare o non desiderare. Perché? Starei, innanzitutto, attento a dare un fondamento strettamente morale a questi punti. Noi li viviamo come doveri morali, diritti morali, pretese morali, cioè come valori – come si ama anche dire – ai quali non si può rinunciare e rispetto ai quali si deve guardare ad un progresso possibile. Credo che senza esagerare, senza dare troppa enfasi a questi pur importantissimi punti, possiamo dire più concretamente: sono conformi al nostro stile di vita. Probabilmente erano inimmaginabili, irrealizzabili e anche astratti, non concreti, in altri tempi. Non facciamo una morale universale della storia, che molto spesso ci grava di pregiudizi. Diciamo che la vita attuale, la produzione materiale e spirituale della vita - la produzione materiale delle cose con le quali e delle quali viviamo, e la produzione delle conoscenze che sono parte integrante della nostra vita spirituale, oltre che della nostra vita materiale - esigono questi quattro punti. Esigono la libertà dell’individuo nelle sue scelte, guai se l’individuo non fosse libero, sarebbe anche una catastrofe economica nella nostra società. Esigono certi diritti, certi doveri delle istituzioni, esigono la parità tra i sessi, perché la vita è diventata paritaria. Perché non ci sono più funzioni così determinanti o individuanti tali per cui debbano esserci anche valori etici condivisi sì, ma profondamente differenziati. Ci sarà sempre una differenza, suppongo, tra i due sessi, ma questa non comporta nessuna sottomissione e nessuna negligenza nel riconoscere la pari dignità della donna (che d’altronde già Platone invocava) nelle sue scelte di vita.
Ecco, io direi che le condizioni di vita ci abilitano a comprendere che questi quattro elementi sono fondamentali per la vita democratica, e laddove una società democratica li garantisse noi, forse, saremmo di fronte ad una situazione desiderabile. Mi sembra, almeno, che si possa dire questo con una larga convergenza di opinioni.
Ma la domanda allora è, e qui veniamo ai punti veri: l’attuale organizzazione della vita democratica in Occidente, là dove c’è una democrazia operante - perché sappiamo bene che non c’è su tutta la Terra, anzi è ben lontana dall’esserci - là dove però c’è, là dove si deve dire (in maniera innegabile) che esiste un governo democratico, una società democratica, un ordinamento democratico, un fondamento anche giuridico che si ispira a valori democratici; là dove c’è la democrazia, insomma, questi quattro punti sono davvero realizzati? La risposta è no, naturalmente no. La risposta è che non è così.
E allora la domanda successiva è, direi, più impegnativa. Che le cose non vadano bene è facile constatarlo, se commentassimo i quattro punti uno per uno avremmo molte ragioni per dire che c’è una insoddisfazione diffusa, che c’è una realizzazione molto parziale di questi elementi. Ma la questione che ora si pone, secondo me, è la seguente: siamo in un processo per il quale è ragionevole pensare che queste inadempienze della realizzazione democratica siano momenti storici che però, in un prosieguo di tempo, potrebbero essere risolti... anzi, saranno risolti? E’ questione di tempo, in parole povere, abbiamo bisogno di rodarci, perché da troppo poco tempo la democrazia abita sul pianeta? E allora è ragionevole, è sensato pensare che bisogna dare tempo al tempo e che bisogna lavorare in una direzione che però finirà fatalmente per affermarsi? O, ci sono delle ragioni strutturali, costitutive diciamo, dell’attuale democrazia che rendono poco probabile che le cose stiano come ho detto nella prima ipotesi, cioè che non è questione solo di tempo, non è questione solo di maturazione, non è questione solo di sormontare difficoltà contingenti in un progresso che però (inevitabilmente) ci porterà alla realizzazione di questa desiderabile forma di vita? No, non è questo. Questa democrazia, nonostante gli ideali che prima ho enunciato, e che io credo largamente condivisibili su questo pianeta, questa democrazia non è in grado di realizzare i quattro punti di cui ho parlato. E quindi noi siamo di fronte non ad un lavoro storico, progressivo, che con pazienza, con lungimiranza, con saggezza, realizzi un po’ alla volta. No. L’altra ipotesi è che noi siamo di fronte ad una sorta di fatica di Sisifo, che sempre di nuovo ci troveremo a scontrarci con difficoltà strutturali che non consentiranno la realizzazione di questi quattro punti; o ne consentiranno una realizzazione molto parziale, quando non addirittura degenerativa. Non lo dico con piacere, spero anche di sbagliare, ma sarei molto incline ad aderire alla seconda ipotesi. Cioè a pensare che questa democrazia è strutturalmente incapace di realizzare la democrazia. In parole povere, è che a noi non si chiede soltanto la buona volontà, la fiducia nella storia; non soltanto si chiede, quindi, una fiducia nel progresso, ma si chiede uno sforzo, uno sforzo di fantasia – se si può dire così -, uno sforzo creativo e soprattutto un coraggio critico che, mordendo là dove le cose non vanno bene per loro struttura, innanzitutto denunci questi difetti, come già si comincia a fare da tempo, peraltro. E poi si provi a pensare quali siano le condizioni (come dicevo prima, il secondo momento) di realizzabilità, cioè che cosa dobbiamo cambiare perché la democrazia effettivamente viva sulla terra in maniera adeguata ai suoi scopi, ai suoi fini. Allora per sostenere questa seconda tesi - cioè che c’è un male strutturale nella democrazia così come la conosciamo oggi, la democrazia attuale, moderna - per sostenere quindi la tesi che dobbiamo pensare a cambiamenti anche profondi, e immaginare dove possano incunearsi nella vita concreta delle persone, per sostenere questa tesi che, ripeto, è una tesi, è un’ipotesi, vagliamola insieme.
Per esaminarla prendiamo semplicemente uno dei quattro punti. Non abbiamo il tempo di esaminarli tutti e quattro anche se sarebbe istruttivo. Prendiamo l’ultimo, perché in qualche modo li riassume e li compendia e, vedremo, anche li esemplifica dentro di sé.
Il diritto all’autodeterminazione politica, il diritto alla scelta politica in quanto perno del cittadino democratico, essenza della sua democrazia, essenza della sua partecipazione ad una società democratica.
Domanda: siamo noi in grado di determinare politicamente la nostra società? Sono in grado, i cittadini democratici dell’Occidente (non solo gli Italiani, non chiudiamoci nella nostra visione molto particolare), i cittadini americani sono in grado di determinare realmente le scelte politiche reali del loro Paese? Qual è lo strumento o gli strumenti normalmente invocati dai difensori della democrazia?
Solitamente si indicano due cose - per difendere il potere di scelta del cittadino in una società democratica e nessuno può dire che non siano importanti o che non siano da difendere anche andando in piazza, se venissero minacciate - la prima è il voto popolare, il voto universale, per il quale si sono fatti sacrifici, lotte infinite, il voto alle donne... solo cento anni fa non c’era il voto alle donne. Il voto a tutta la popolazione. Solo cento anni fa non c’era il voto a tutta la popolazione, i poveri non votavano... Sono cose rilevanti, sulle quali meditare. Quindi prima di dire “il voto popolare è uno strumento inefficace” bisogna tenerlo ben caro, no?
Detto questo, ribadita questa fiducia nel voto democratico, vi sembra che l’organizzazione del voto democratico sia plausibilmente efficace? Sia plausibilmente una effettiva scelta sulle questioni effettive di fondo, che regolano la vita di una società nei suoi aspetti materiali, morali, spirituali, tecnici, scientifici, ecc., ecc.? O non c’è il rischio - che è stato tante volte peraltro denunciato – che il momento del voto sia un grande momento, diciamo così, di festa popolare? Per carità, un grande momento di presa di coscienza, anche sociale, politica e, quindi da questo punto di vista un momento aggregante, ma che poi si riduce in una formalità incapace di mordere davvero sulla realtà.
Che cosa ci fa pensare questo? Primo: di cosa si dovrebbe godere per poter esercitare un voto incisivo, un voto che effettivamente esprima un parere e non un’emozione, non uno stato d’animo passeggero, non una identificazione psicologica con una o un’altra parte, per ragioni che (ormai la sappiamo lunga sulla psicologia del profondo degli esseri umani) con la vera e propria libertà democratica o libertà politica hanno poco a che fare, identificazioni che nascono da tutt’altri canali. Per poter fare ciò i cittadini dovrebbero godere di due grandi privilegi. Il primo: una informazione ampia e oggettiva. Il secondo: una cultura che permetta di apprenderla. L’una e l’altra cosa non esistono. Diciamolo con franchezza. Non esistono ed è anche difficile che esistano, intendiamoci. Non è soltanto che non esistono perché c’è la malvagia volontà di non farli esistere. Certo, c’è anche questa, fa comodo che non esistano, su questo non c’è dubbio.
Ma soprattutto il fatto è che una corretta informazione esigerebbe un lavoro di tale mole e di tale onestà, di tale oggettività, di tale condizione di colui che lo esercita come colui che è sopra le parti. Ma dove sta un Paese così beato? Dove sta una condizione così idillica? Come diceva il grande Kant: “Chi controlla i controllori?”. Questo è il grande problema della democrazia e di ogni Stato che si fondi, per esempio, sulla separazione dei poteri, cosa fondamentale che in Italia è stata messa a serio rischio. I poteri dello Stato devono essere liberi e indipendenti, esercitando un reciproco controllo. Già, ma “chi controlla i controllori?”, questo è un problema di fronte al quale tutti rimaniamo palesemente incerti.
Il secondo: ma se è vero che questa società democratica si fonda sulla scelta del popolo (cioè di tutti noi) e che il voto di ognuno di noi esprime una sincera, profonda, meditata, razionale, valutazione pro o contro, in un senso o nell’altro, non vi pare allora che la cosa più importante di una società democratica sia l’istruzione dei suoi cittadini? Non c’è niente di più importante in una società democratica del fatto di portare la cultura ai cittadini. Quella cultura che non è semplicemente ornamento dello spirito... “del piacere della sera”, come diceva Wagner che era un aristocratico, quindi vedeva le cose molto polemicamente rispetto alla democrazia. Non è solo “il piacere serale del lavoratore estenuato”. No! E’ la cultura, appunto, del primo punto: io sono padrone della mia vita, ho la libertà e il diritto di determinarmela, ma per fare questo però devo sapere qual è il mio bene (diceva Socrate), se non sono in grado di valutare, di giudicare, con mente pura e con cultura adeguata qual è il mio bene allora il mio voto è il voto di un poveraccio, è il voto di uno schiavo, non di un uomo libero. Allora io vi chiedo: vi sembra che le società democratiche dell’Occidente investano la maggior parte dei loro denari nella formazione dei cittadini? Vi sembra che gli organi dell’informazione pubblica, soprattutto i famosi mass media, abbiano come finalità l’educazione dei cittadini? E’ palesemente falso tutto questo, no? Sappiamo che non è così. Ma se non è così allora dobbiamo dire con forza che questa società dichiara di essere democratica, ma non vuole essere democratica.
Una società che accetta che i suoi strumenti di informazione, che i suoi strumenti di svago (cosa legittimissima, per carità), che i suoi strumenti culturali, in senso lato, siano nelle mani di pagliacci e mascalzoni, pagliacci e mascalzoni, venduti di tutti i generi, un circo Togni (con tante scuse per il circo Togni), una civiltà e una società che accetta questo è una società che dichiara di essere democratica, ma che non vuole essere democratica. Non vuole che i suoi cittadini siano davvero in grado di giudicare, abbiano la sensibilità, la cultura, la raffinatezza, il tempo, il tempo per prendere piacere ad una valutazione oggettiva delle cose loro. No, questa è una società illusionista. Questa è la società di Gorgia, non è la società di Platone. Questa è la società dei retori, non è la società dei logici, dei filosofi, degli scienziati.
E allora, nel momento in cui, non di meno, tutti noi siamo chiamati ad una valutazione certamente siamo di fronte ad un bene prezioso. E, ripeto, lo dobbiamo difendere con le unghie e coi denti. Ma nello stesso tempo dobbiamo essere ben consapevoli che esso è tutt’altro che sufficiente. Esso è, come dire, nelle mani di due grandi pericoli o nella deriva di due grandi pericoli. Di una semplice illusione di poter determinare davvero il futuro politico della società in cui viviamo, mentre invece noi semplicemente lo avvaloriamo con un voto che garantisce i “padroni del vapore”, che garantisce i reali potenti di una sorta di democratica accettazione da parte di tutti noi. Quindi diventa molto più comodo per loro, che per noi, questo tipo di diritto che noi esercitiamo.
La seconda deriva è che non sappiamo che cosa scegliamo. E, badate, molte volte non lo sappiamo. Anche nei problemi contingenti, come dire, c’è una quantità sterminata di informazioni che possono ad arte essere piegate di qua o di là, l’ironia delle cifre, o il balletto ridicolo e grottesco delle cifre per cui ognuno si può inventare una qualche cifra che gli dà ragione. Sembra incredibile, è la matematica messa al servizio di Gorgia, appunto, del retore, messa al servizio dell’illusionismo politico. Ecco, tutto questo fa sì che il nostro voto – sacrosanto dovere e diritto che ognuno di noi ha – si vanifichi. E io credo che si vanifichi aggiungendo un’ulteriore osservazione, alla quale personalmente tengo molto. Credo che si vanifichi anche per una ragione molto precisa, che forse ci fa individuare possibilità alternative a come noi, oggi, viviamo il momento democratico del voto, del rinnovamento delle Camere, ecc., ecc.. Ed è questa la riflessione: secondo voi - riflettendo, liberando la mente da ogni pregiudizio e da ogni timore, prendendo la cosa per quello che è, senza timori nei confronti di ipotesi che spaventano, e certo, certe ipotesi spaventano - secondo voi è più importante politicamente scegliere o controllare? Io credo controllare, francamente. Credo controllare perché nella maggior parte dei casi io non sono in grado di scegliere.
Nessuno di noi è in grado di scegliere, la realtà è sempre più complessa. La realtà è sempre più leggibile in tanti modi. Il futuro dell’economia... ma neanche gli economisti riescono a sapere qual è il futuro dell’economia. Se parla un economista di un certo tipo mi convince subito, poi parla il suo collega e mi convince anche lui. Io non sono un economista, nessuno di noi (tranne eccezioni) è un economista. Se è un economista è una voce tra le molte, e perché quella dovrebbe essere più vera di un’altra? Quindi la realtà è che noi viviamo in una complessità di fenomeni, come dire, di previsioni, che sono difficilmente valutabili a priori da un cittadino comune. E io non sono molto contento di essere chiamato a fare delle scelte su cose di cui non capisco nulla, o per le quali non ho i dati sufficienti. Se uno mi chiede, nell’ambito del mio mestiere: ma per l’Università questa legge è buona o cattiva? Io gli dico subito: cattiva. E avrei da parlare per sei mesi per dirvi perché è cattiva, e avrei da portarvi molti elementi. Poi un altro la penserà in un altro modo, certo. Ma sono certo che io sarei in grado di motivare il mio giudizio in maniera molto precisa, con esempi concreti, con esperienze che io con i miei occhi ho fatto. E vi dico: così non va bene, questa legge è da cambiare, quanto meno è da trasformare profondamente; speriamo che lo facciano nella prossima legislatura. Questa è l’opinione del cittadino Carlo Sini che fa il professore. Ma se voi mi chiedete: dobbiamo scegliere il nucleare o no? Dobbiamo fare la tangenziale o no? Io non lo so. Ma perché, voi lo sapete? Poi ognuno di noi ha un suo orientamento politico, è affezionato a certe cose, viene da una certa cultura, da una certa tradizione, e quindi si fida di quelli con i quali si identifica. Ma questo non è un buon criterio per giudicare, per valutare. Quello che vorrei, come cittadino, sarebbe una cosa che invece non mi è mai, in alcun modo, data: il controllo che ciò che è stato scelto dai competenti, e che è stato dichiarato essere il meglio per tutti noi, diventasse efficiente, e che ognuno di noi potesse pretenderlo, e che avesse delle forze capaci, diciamo così, di esigere dai responsabili il risultato. Questo nella vita democratica è rarissimo e spesso è enfatico. Di nuovo diventa uno scontro, uno scontro retorico, l’uno dice “avete fatto tutto male”, l’altro dice “ma non è vero, è tutto vero il contrario”... siamo daccapo.
Il controllo è una cosa concreta. Il controllo è una cosa che si può esercitare soltanto attraverso una presenza e una protezione legale. Questo tipo di pensiero l’hanno avuto, in passato, le organizzazioni sindacali che nell’ambito del loro ufficio si sono preoccupate molte volte in passato del senso globale. Cioè, non mi basta proteggere gli interessi dei lavoratori (tipo gli operai della Fiat o di qualche cos’altro) vorrei anche capire quali sono gli orientamenti generali dell’azienda, quali sono le funzioni sociali dell’azienda e quali sono i propositi e quali sono gli scopi, e poi verificarli. Si è detto molto male di questo atteggiamento dei sindacati, lo abbiamo sentito molte volte demonizzare. E forse ha avuto anche degli aspetti negativi, per carità! Però, in realtà, se i sindacati non sono in grado di garantire questo per il cittadino, perché i sindacati hanno una loro storia, una loro grande e nobilissima tradizione, in una vita democratica ci devono essere comunque delle strutture di controllo. Non è possibile che il potere faccia quello che vuole, dichiari quello che vuole, prometta quello che vuole, e poi ce ne dimentichiamo tutti e ricominciamo daccapo a votare le marcette, le fanfare e le bandierine. Perché questo è prenderci per il naso.
Noi abbiamo bisogno di poteri di controllo. Questi poteri di controllo sono spesso garantiti sulla carta e resi impossibili di fatto. Provate ad andare a chiedere in un consiglio di amministrazione di leggere gli atti del consiglio - ne avete il diritto -, non li leggerete mai. Cioè dovreste fare solo quello nella vita: lasciare il lavoro e perseguitare queste persone sino a che farete in modo di vedere riconosciuto il vostro diritto di leggere gli atti che sono dichiarati pubblici, ma che nessuno vi darà mai creando una serie di difficoltà. Ognuno di noi ha una vita difficile da vivere, lo so bene, ognuno di noi ha tempo molto risicato, come si dice, e ognuno di noi, anche, si annoia a inseguire queste vicende. Però questo è il punto vero. Questo è l’unico discorso serio nell’ambito di un controllo democratico. La difficoltà è che noi non immaginiamo minimamente come si possa realizzare.
Credo che si debba, e si possa, anzitutto realizzare nell’ambito concreto nel quale uno vive e lavora. Perché certo io non mi posso andare a interessare di come si organizza il Coni, pur amando lo sport, ma non è la mia vita, non ne so niente, non ho fatto nessuna esperienza. Ma vorrei essere molto presente nelle valutazioni del ministero che regolamenta il rapporto tra i professori e i gli studenti, i programmi che si insegnano a scuola. Vorrei avere un controllo. Ma non un controllo nel senso che ho il diritto di scegliere a priori... scelgano i cosiddetti competenti, e ogni partito al governo si assuma la responsabilità di dire ‘io seguo questi competenti’. Quindi i competenti mi diranno che scelta hanno fatto: poi io vado a vedere se gli effetti di questa scelta hanno avuto esiti positivi nei nostri giovani. Perché questo è il mio dovere di professore, questo io devo dare alla società, non un’altra cosa. Ma per poterlo fare non basta che io insegni con tutta la buona volontà, devo essere padrone del diritto politico di intervenire localmente là dove ho una competenza e una diretta presenza. Questo mi deve essere istituzionalmente garantito. E il voto generico non me lo garantisce. Il voto generico può andare bene per tante cose, ma certo non ha il potere di inserirsi, di entrare in questi particolari. Allora vedete, quando noi siamo di fronte ad una società che ostinatamente nasconde le mani, come diceva Macchiavelli con una bellissima metafora, noi vediamo gli occhi e la bocca dei nostri governanti, ma le mani no. Quando una società si comporta così allora è difficile riconoscerle una grande sostanza democratica. La democrazia sta più nella forma che nella realtà vera. Non soltanto, siamo di fronte ad una società la quale non si limita a mostrare, diciamo così, il viso dei nostri governanti ma non le mani, c’è di più: non mostra (lasciatemi usare questa immagine, sebbene abusata) i veri padroni. E allora va ancora peggio. Perché è molto facile gettare sulle spalle degli uomini politici la responsabilità di tutto. Vogliono il nostro voto e vogliono esercitare un potere. Un potere che poi consente loro di fare tante cose per loro e per la loro parte, lo sappiamo benissimo.
Ma, vedete, il punto vero è: sono davvero questi i padroni? Sono davvero questi i luoghi di potere della democrazia? E’ davvero lì che si decidono le cose? O non si decidono piuttosto in luoghi a noi totalmente inaccessibili? In salotti misteriosi, in corridoi nei quali noi non passeggiamo? E allora qui entriamo in quell’altro aspetto, in quell’altro profondo aspetto che rende, a tratti, desolante l’esercizio popolare del voto. Desolante perché, purtroppo, non si può in alcun modo accedere a questi livelli. Certo, si può condizionare, per carità. Per fortuna ancora questa possibilità ce l’abbiamo. Abbiamo la possibilità quantomeno di dire: NO! E questa è una grande possibilità, dire: “così come sta andando, non ci va!” Ecco questo diritto almeno lo possiamo esercitare. Ma con questo non abbiamo né determinato, diciamo così, una reale svolta né toccato gli interessi che stanno dietro. Perché io temo che molte volte quelle che sono le alternative che ci vengono offerte siano nascostamente negoziate con i padroni del vapore. Inevitabilmente. Perché l’uomo politico è un uomo concreto, non è un sognatore. E’ un uomo che deve faticosamente, ogni giorno, e a rischio personale mediare tra interessi terribili. Questo deve fare un politico, se non fa questo evidentemente è meglio che cambi mestiere. E allora l’ultimo punto. L’ultimo punto sul quale vorrei riflettere insieme a voi: può oggi, soprattutto oggi, può il nostro voto, possiamo noi il 9 aprile - votando in un modo e in un altro – determinare davvero il futuro economico di questa società? Ecco, la mia risposta è: profondamente no. Perché - anche di fronte alle migliori intenzioni, e anche di fronte alla possibilità che certe cose indubbiamente vadano meglio, o siano comunque trasformate - ci sono delle testimonianze di questi ultimi cinque anni che dicono che le classi abbienti, in Italia, non avevano mai trovato un periodo così fortunato e felice. Questo lo dicono loro. Si può un pochino cambiare, certamente, possiamo evidentemente dare una svolta sociale ed economica che tenga maggiormente conto di certi aspetti, il problema dei nostri giovani, ad esempio. Sì, questo si può fare. Ma possiamo noi davvero mettere in discussione la situazione, la struttura economica, il modo di produrre le cose, il modo di diffonderle nel mondo, di venderle e di comprarle? E quindi i destini del lavoro, di questa società e delle società della terra? Siamo davvero noi – Stato italiano – in grado di promuoverli? O i nostri governanti sono già inevitabilmente all’interno di un’intesa internazione, ben precisa, entro la quale - come mi disse una volta l’amico Massimo Cacciari che parlava del suo fare il sindaco a Venezia: “Ho tanto spago, così” – i confini sono limitati? Ecco, quanto spago abbiamo? E allora qui, di nuovo, vengono fuori alcuni problemi rilevanti. Esiste la possibilità di una vita politica, democratica, che affida agli elettori l’autodeterminazione delle scelte politiche senza che queste siano radicalmente e fortemente economiche? Credo che la risposta sia: no, non è possibile. Se le nostre scelte politiche sono scelte di tendenza, di faccia, di tradizione, di cultura, va benissimo, ma non sono sufficienti. Non sono sufficienti se non mordono là, se non decidono là, se non indicano là dove davvero si prendono quelle decisioni che poi passano sopra la testa della vita politica corrente, che sono più importanti della vita politica corrente. Questo è un problema che sta diventando esplosivo.
Questo è quel problema per il quale quando si parla di democrazia planetaria, molti di noi hanno un irrigidimento, che è un irrigidimento doloroso. Perché, come dicevo prima, chi è sinceramente democratico dovrebbe essere contento di sentir parlare di democrazia planetaria, di democrazia universale. Ma non è così, perché quella che viene in questo modo propagandata, e sostenuta, è la democrazia di una certa scelta economica precisa. La quale non va certamente in direzione di quei quattro punti, o vi va solo molto parzialmente, e solo attraverso molti sacrifici, dolori di una parte dell’umanità.
Voglio dire che noi ormai siamo di fronte ad una situazione economica globale, mondiale, nella quale le scelte sono state sottratte ai governi, almeno in parte. E ormai si orientano secondo principi di cosiddetto “liberismo economico” che sono (detto fuori dai denti, papale papale) l’interesse dei più potenti e dei più ricchi. Questo è assolutamente vero, capite? E’ incontestabile. Gli errori sono stati creati dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale, denunciati dai loro stessi dirigenti, quando se ne sono resi conto, e quando sono venuti fuori... E questo orrore indica chiaramente che le scelte economiche del pianeta non vanno in direzione di una vita democratica. Alla lunga noi porteremo una devastazione – come stiamo portando alcune devastazioni – in tante parti della Terra per mantenere il privilegio e la ricchezza di altre parti, o di componenti molto piccole di queste altre parti, le quali sono assolutamente ignote a voi e a me, sono assolutamente fuori dal nostro gioco di elezione democratica. E questo i nostri uomini politici lo sanno, dalla A alla Z, molto meglio di noi.
Ma li avete mai sentiti parlare così? E’ molto raro che parlino così. Qui, per esempio, subito si vedono alcune cose che sono oggetto di una discussione interessante, da qualche mese, anche da qualche anno. Si dice che di fronte al globalismo, all’economia globale, al mondo che supera tutte le frontiere, che crea grandi coalizioni di interessi - l’Unità europea, il Giappone, gli Stati orientali, poi quelli emergenti che fanno così paura, la Cina, l’India - si dice che di fronte a questo scenario gli Stati nazionali non abbiano più niente da fare o poco da fare, perché effettivamente sono, come dire, spogliati delle loro facoltà giuridiche. Se io sono Stato italiano e sono di fronte ad una catena internazionale, non ho gli strumenti per perseguire questo soggetto giuridico. Cioè, questo soggetto giuridico mette gli uffici di rappresentanza a Milano, ma gli operai sono in Malaysia, e un altro gruppo di impiegati stanno nel Perù... e io come faccio a intervenire? Io Stato italiano, che giurisdizione ho? Su questo non ce l’ho.
E allora si dice, giustamente, gli Stati ormai non contano più nulla. Ma badate si sta riflettendo sul fatto che la soluzione non è in uno Stato globale, in un’Onu globale, l’Onu faccia il suo mestiere... Ma siamo anche ben consapevoli del limite di incidenza, perché l’Onu non avrà mai il potere militare e il potere di intervento della forza, perché ci vuole la forza nella politica per poter imporre certe cose, piuttosto che certe altre. E questo potere non l’avrà mai perché lo prende da quegli stessi membri che la tengono in vita. E quindi glielo daranno se hanno interesse a darglielo e glielo toglieranno se hanno interesse a toglierlo. Allora la soluzione del globalismo, che supera le situazioni politiche locali, la giurisdizione locale, non sta in uno Stato universale. Molti, più cinicamente, dicono: be’, ma perché vi preoccupate tanto? la soluzione c’è già, è la vecchia soluzione, il più potente è lui lo Stato mondiale. Lo Stato mondiale è l’impero, c’è già l’impero. Siamo d’accordo? Lasciamo fare? O tutto questo non è a sua volta catastrofico? E’ sicuramente garanzia di non democraticità.
Dove sta, dunque, il potere reale? E’ nello Stato. Allora forse questo Stato locale e nazionale non ha finito il suo compito, pur aprendosi a una visione planetaria. Perché, lo Stato italiano può dire “se tu metti la rappresentanza a Milano, ma poi sfrutti il lavoro minorile in Africa, la legge non te lo consente; la mia legge, e i miei Carabinieri vengono a prenderti e ti portano a San Vittore”. Questo è possibile. Questo è un’evoluzione possibile dello Stato democratico. Questo è possibile sfruttando quella forza che ancora le Nazioni hanno e che avranno per lungo tempo. Che cosa desideriamo, in fondo, noi quando parliamo dell’India o della Cina? Che l’India e la Cina rispettino i loro lavoratori così come noi abbiamo imparato - in secoli di guerre, di guerre interiori, di rivoluzione, eccetera – a rispettare i nostri. Ma innanzitutto sono i nostri, come dire, imprenditori che devono rispettare questa legge universale democratica. Siamo noi che dobbiamo chiederci perché dappertutto sparano con le pistole Beretta, tanto per dirne una. Non ci riguarda? Lo Stato italiano non ha niente da dire su questo? Siamo noi che dobbiamo chiederci perché il mercato delle armi nel mondo è il primo nell’ordine di tutti i mercati? Non c’è prodotto che sia così ampiamente scambiato, venduto, circolante sulla Terra, quanto le armi. E su questo non hanno niente da dire i governi? Devono accettare il fatto che si tratta di cartelli internazionali, e quindi come tali estrinseci rispetto alla giurisdizione di ogni Stato? E chi l’ha detto che devono restare così? Per vostra curiosità, il secondo prodotto universale del commercio mondiale sono le medicine. Questo è molto interessante: da un lato t’ammazzo e dall’altro ti avveleno, così siamo sicuri, siamo tranquilli... Adesso tiro un po’ le conclusioni delle provocazioni che ho lanciato. Se non si realizzano i quattro punti di cui ho detto prima, la democrazia è formale ma non sostanziale. Noi viviamo questo disagio. Viviamo certamente degli enormi vantaggi rispetto al passato, credo che non abbiamo molto da rimpiangere del passato. Dobbiamo difendere questi diritti acquisiti, e questo benessere che certamente da noi c’è, chiedendoci se questo benessere è legittimo. Chiedendoci se è legittimo, ed è ben amaro da dire nei confronti dei nostri giovani che non hanno lavoro, che non avranno la pensione, che non si sa come camperanno... E’ molto amaro da dire, ma noi viviamo al di sopra delle nostre possibilità. Su questo non c’è assolutamente dubbio, questi sono i dati che noi ricaviamo non da qualche economista del Terzo Mondo, ma dalle Banche centrali europee, centrali occidentali.
Certamente noi abbiamo motivo di difendere quello che abbiamo, di essere compiaciuti per certe battaglie vinte, di continuare in quella direzione. Ma credo che abbiamo bisogno di due trasformazioni che nascono dal discorso fatto.
Primo: una profonda trasformazione della vita politica democratica, la quale non è più sufficientemente rappresentata, e rappresentativa, nella dinamica media dei partiti. Questo lo sanno tutti i partiti; tutti si chiedono come fare, ma certamente qualcosa bisognerà fare. Bisognerà trovare il modo di aggregare le persone, di coinvolgere la base, non semplicemente in una vita retorica del partito o della politica, ma in una effettiva capacità di dar loro spazio per far sentire la loro voce, incidenza. E io direi: la mossa giusta è smetterla di parlare dei principi e guardare alle conseguenze. Certo i principi sono sacrosanti, e là dove non sono rispettati vanno naturalmente difesi con tutte le forze. Ma qui continuare a parlare di libertà di espressione, quando la libertà di espressione poi è la libertà del postribolo... perché questa è la nostra libertà di espressione, basta guardarsi intorno. Va bene, questa è già garantita dalla Costituzione, per carità. Ma io voglio sapere a quale fine, a quale fine questo spettacolo è stato deciso; questi soldi sono stati spesi; questi libri sono stati stampati... perché no? Perché non dobbiamo avere il diritto di dire la nostra nell’ambito delle cose nelle quali abbiamo effettivamente una competenza, lavoriamo. Perché deve essere la decisione dell’editore a scegliere i libri, e non di quelli che li fanno, materialmente anche. Perché loro sono semplicemente delle macchine al servizio di interessi altri? E il mercato deve essere invaso da stupidaggini, ed è la minore delle cose che possiamo dire. E’ proprio inevitabile questo? Non siamo capaci, non siamo politicamente capaci di affrontare questo problema? Ne abbiamo affrontati ben di peggio nella storia, con sacrifici e pericoli personali allora tremendi. Quindi anzitutto una organizzazione della vita politica dei cittadini, che dia ai cittadini la possibilità del controllo: “tu mi devi dare ragione del perché è scomparso il teatro dalla televisione; del perché sono state chiuse due orchestre Rai. Perché?”. Non basta il trafiletto sul Corriere della Sera dove qualcheduno competente, del ramo, lancia il suo grido di dolore. Se ne fregano tutti di questo grido di dolore. Bisogna dire alle persone: che cosa volete? Volete questo? Benissimo, ma guardate che si può avere anche altro. Non semplicemente vedere certi comici che fanno piangere. Ci si può divertire, si può avere anche uno spettacolo davvero divertente se colui che presiede a queste cose è un competente, è bravo, non ha suo cugino da raccomandare, e così via. Allora un controllo democratico attraverso una ristrutturazione della partecipazione alla vita democratica dei cittadini. Questo è un compito politico, secondo me, che ogni partito deve mettere nell’agenda al punto uno. Come ci riorganizziamo? Invece che il solito gioco... i dirigenti, i quadri... No, cambiamo tutto. Aria! Apriamo le porte e le finestre, che entrino le persone, ascoltiamo cosa dicono, forse hanno più idee di noi. Questo è il primo punto.
Il secondo viene di conseguenza. Questo non basterà mai se non viene messa in discussione la radice economica di tutto ciò. E’ legittimo in una società democratica, in una società che si definisce liberale, e che si definisce liberistica – dove liberistica vuol dire che sul mercato vince il migliore senza protezionismi e senza, come dire, effetti drogati dovuti al potere - è legittimo che una società del genere sia governata da alcune decine di famiglie? Perché, signori, è così. Alcune decine di famiglie governano l’economia mondiale. Ma allora noi siamo ancora nella preistoria? Forse Marx aveva ragione, siamo ancora nella preistoria, siamo ancora al sangue e allo sperma! Siamo ancora quelli lì. Siamo ancora in una società nella quale l’ideale moderno della spiritualità dell’individuo, della persona (come dicono per esempio i cristiani, io sono perfettamente d’accordo su questo), non ha nessun reale peso. Hanno peso i “magnanimi lombi”. Vi rendete conto dell’inganno che ci stanno perpetrando? Ci mostrano la modernità, una modernità che sta dietro alla maschera della mafia. Perché questa è la mafia: il diritto di famiglia, i miei figli che ereditano tutto, e non pagano manco le tasse in Italia. Questa è una società che non realizzerà mai i quattro punti di cui parlavo. Bisogna comprendere che la grande rivoluzione moderna del linguaggio attraverso la scienza, della produzione attraverso l’industria (che è stata la grandezza della modernità) e il denaro, che è come il voto un simbolo puramente astratto, queste grandi rivoluzioni avranno un’efficacia se avremo il coraggio di andare sino in fondo. Non possiamo renderle contemporanee alla mafia delle famiglie, che poi diventano presidenti degli Stati, che poi determinano completamente la politica dei giornali, delle televisioni. No, questo è arcaismo puro. E allora dovremo guardare al denaro come un valore sociale. Il denaro è uno strumento meraviglioso, come la lingua, come la scienza, ma deve essere a beneficio di tutti e non nel senso che viene sottratto... Non è questo. Il suo uso è sociale, la sua legittimità è sociale. Non può essere il mercato finanziario quello che determina i destini dell’umanità.
E andare a toccare queste cose, naturalmente, fa tremare le vene e i polsi.
Carlo Sini