sabato 18 novembre 2006

Idee in cantiere (*)


1. Serendipity. Concetto sconosciuto ai più. Buffo anzichenò. Con un certo non so che di magico. Una sorta di supercalifragilisticoespiralitoso della ricerca sociologica. Che si deve alla genialità di Robert K. Merton. Che lo ha riferito “all’esperienza, abbastanza comune, che consiste nell’osservare un dato imprevisto, anomalo e strategico, che fornisce occasione allo sviluppo di una nuova teoria o all’ampliamento di una teoria già esistente” (Merton, 2002).
Perché vi raccontiamo tutto questo?
Perché abbiamo un’idea. L’idea che l’interazione di menti preparate in ambienti socio cognitivi serendipitosi possa diventare un acceleratore di opportunità per tutti quei soggetti - città, università, imprese in primo luogo - che hanno deciso di puntare sull’innovazione. Scrutare i segni del tempo. Ridefinire il proprio ruolo nella società. Conquistare nuovi spazi di mercato.
L’idea è insomma che “per genio e per caso” si possa crescere di più. E sfruttare meglio le opportunità. Piuttosto che versare lacrime di coccodrillo per la fuga dei cervelli. O impegnare risorse pubbliche nella costruzione di fantomatici MIT in salsa nostrana.
In questo quadro, la scelta di non approfondire alcune questioni, come ad esempio quelle che si riferiscono alle risorse finanziarie da impegnare o alla necessità di investire sul capitale intelligenza, liberalizzare l’accesso alla conoscenza in ogni sua forma e attraverso qualunque mezzo, incrementare le capacitazioni delle persone e valorizzare della creatività e della conoscenza esplicita e tacita dei singoli, creare conoscenza capitalizzata all’interno delle imprese e sostenere anche per questa via i processi di innovazione e sviluppo, non significa sottovalutarne la rilevanza o il carattere strategico. Più semplicemente, è la conseguenza della definizione di un ordine di priorità che nel caso specifico privilegia altri e diversi fattori.

2. La nostra idea ha una storia alle spalle. Quella di Piero Carninci, giovane scienziato triestino che con Yoshihide Hayashizaki dirige il FANTOM International Consortium, messo su dalla RIKEN Genome Network Project con 45 istituzioni e 192 scienziati di 11 paesi.
Perché la sua storia è importante?
Perché in Italia, come lui stesso ci ha raccontato, Carninci non ha avuto la possibilità di stabilirsi come ricercatore, pur avendoci provato per diversi anni, sia in campo universitario che nell'industria biotecnologia.
Perché le domande con le quali si ritrovava a fare i conti dalle nostre parti erano del tipo: prenderò il prossimo stipendio? devo cambiare lavoro? se non compero la carne ma mangio solo spaghetti, riesco ad avere i soldi per fare benzina e andare in laboratorio?
Perché giunto in Giappone le sue domande prevalenti sono di colpo diventate: come capire la funzione del genoma? come sviluppare tecnologie che permettono l'analisi in parallelo di molti geni?
E perché insieme alla sua nutrita band di cervelli ha scoperto, per genio e per caso, che il trascrittoma (RNA) interagisce con il DNA e lo modifica e che il genoma contiene almeno 240.000 promotori (una sorta di interruttori che accendono o spengono la trascrizione di RNA) che sono stati per questa via finalmente identificati.
Non sappiamo naturalmente se tutto questo basterà a Carninci e alla sua band per vincere il premio istituito da Alfred B. Nobel (un altro che ha avuto sicuramente a che fare con la serendipity). Siamo certi invece che anche la nostra storia ha una morale. Anzi due. Che lo stesso Carninci ha così sintetizzato:
“Dall'Italia ho avuto tantissimo, in termini di educazione e primi anni di esperienza lavorativa. Tuttavia, nel momento nel quale avrei potuto restituire al mio Paese qualcosa, non c'e stata nessuna struttura pronta ad una collaborazione produttiva.
Il fatto è che in Giappone, come negli Stati Uniti, le strutture di ricerca sono organizzate, la ricerca è un investimento in conoscenza, quella del ricercatore è una professione vera, nel senso che il ricercatore non è considerato un parassita ma uno che deve produrre conoscenza (e brevetti) per lo sviluppo del paese” (Moretti e Massa, Technology Review Italia, n° 1, gennaio - febbraio 2006).

3. Nessun uomo è un’isola (Donne, 2000). E dunque nessuna idea. Neppure la nostra. Come dimostra lo straordinario lavoro di Merton. E, ancora di recente, Genius Loci, la storia di copertina di Nòva - Il Sole 24 Ore (n. 36, 6 luglio 2006; nello stesso numero cfr. anche, ancora a proposito di Serendipity, la rubrica di Francesca Cerati).
La ragion d’essere della nostra idea non sta insomma nella sua originalità (qualità peraltro assai discutibile in un mondo nel quale, come amava ricordare Jorge Luis Borges, quasi tutto è già stato scritto) ma piuttosto nella sua possibilità - capacità di prendere atto, creare senso, sfruttare il potenziale.
Prendere atto di che cosa?
Del permanere – a prescindere dalla forza degli argomenti in questione, siano essi i distretti della conoscenza o le nuove forme di marketing territoriale, per restare all’esempio citato - di una oggettiva difficoltà a uscire dai confini della sperimentazione, a delineare una prospettiva nella quale le eccezioni diventino la regola, le buone pratiche la norma.
E' un prendere atto che non significa subire, ma piuttosto comprendere fino in fondo tale difficoltà per incrementare le effettive possibilità di superarla.
Come?
Ad esempio attivando processi di sensemaking. Facendo in modo che la realtà assuma il carattere di una costruzione continua che è a sua volta il risultato dell’attività delle persone che danno senso in maniera retrospettiva alle situazioni che hanno istituito e nelle quali si trovano calate.
Si tratta di una modalità, un approccio, che permette alle persone di generare ciò che interpretano. Di un “processo fondato sulla costruzione dell’identità, retrospettivo, istitutivo di ambienti sensati, sociale, continuo, centrato su (e da) informazioni selezionate, guidato dalla plausibilità più che dall’accuratezza” (Weick, 1997).
Proprio il carattere di cantiere dai lavori perennemente in corso caratteristico del sensemaking favorisce la possibilità di passare, con un salto dalla Grecia alla Cina, dal modello di efficacia basato sulla massimizzazione del rapporto mezzi – fini, a quello basato sulla capacità di sfruttare al massimo il potenziale insito nella situazione data (Jullien, 2006).
In che modo?
Utilizzando al meglio tutti i fattori, gli elementi, i dati disponibili (don Peppe detto “Testolina”, “storico” magliaro di Secondigliano, alla periferia est di Napoli, sosteneva che a tressette vince chi sa giocare meglio non solo con le proprie carte, ma anche con quelle degli avversari). Accompagnando i percorsi - processi di crescita piuttosto che avendo la pretesa di guidarli. Facendo in modo che l’effetto sia prodotto dalla situazione stessa.

4. In definitiva, la nostra idea è che in Italia esistano molte condizioni, in termini di intelligenza, creatività, spirito di iniziativa, capacità di innovazione, particolarmente favorevoli allo sviluppo di ambienti socio cognitivi serendipitosi e dunque all’attivazione e allo sviluppo di processi virtuosi “per genio e per caso”. E che davvero ci possano essere 10, 100, 1000 “Serendipity Lab” nel nostro futuro. In particolar modo se saranno le istituzioni, le università, le imprese a interpretarne la necessità e ad accompagnarne la crescita. A favorire la loro propensione a (ri) definire identità, attivare e dare senso agli ambienti nei quali operano. A incentivare la loro voglia di fare rete. A sostenere, come ha suggerito Enzo Rullani (Nòva, cit.), la loro capacità di industrializzare le idee migliori.
Come sempre in faccende di questo tipo, niente può essere dato per scontato.
Ma forse nell’Italia delle cento città questa può essere davvero una maniera utile per sostenere processi di sviluppo dal basso, diffusi, di qualità.

vincenzo moretti

(*) articolo inizialmente pubblicato in versione ridotta su Nòva Il Sole 24 Ore del 7 settembre 2006

Nella versione completa attuale l'articolo è pubblicato su Rassegna.it

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