venerdì 30 marzo 2007

L’idea di comunità

di Roberto Esposito


Credo che oggi la domanda sul significato, e anche sul destino della comunità, nasca dall’impressione, che forse tutti abbiamo, di essere esposti a una contraddizione.
Da un lato tutto oggi sembra parlarci di comunità. Tutto - ogni pezzo della nostra esperienza singolare, collettiva - sembra nominare, evocare questo termine, questo tema della comunità. Cosa altro ci dicono, in fondo, di cosa altro parlano se non della questione della comunità i corpi, i visi, gli sguardi di milioni di affamati, di deportati, di rifugiati, le cui immagini spesso terribili scorrono sugli schermi televisivi da ogni angolo del mondo? E non è ancora, in fondo, la comunità, la questione cioè del rapporto tra le persone che richiama alla fine ogni nascita? Si nasce dentro un’altra persona - come vedremo alla fine. Quindi tutto ci parla della comunità. Eppure, ecco la contraddizione, proprio oggi, mai come oggi, la comunità, questo tema della comunità, appare abbandonata a un doppio destino negativo: il destino della dimenticanza, della perdita della memoria di ciò che significava questa parola; e poi il destino della deformazione, del tradimento, del significato originario della comunità.

Della dimenticanza perché, in fondo, il crollo di tutti i comunismi ha prodotto come una sorta di vuoto di pensiero, come un gorgo in cui la questione della comunità è, diciamo così, colata via, si è quasi inabissata. Ma poi a questo pericolo di oblio, di cancellazione, se ne aggiunge un altro, un altro pericolo forse ancora più grave: cioè quello del fraintendimento, della deformazione di ciò che l’idea e la pratica di comunità dovrebbe significare. Questa deformazione accade, anche qua, dovunque: lontano, alla periferia del mondo, ma anche nel centro delle nostre città, nei ghetti delle nostre metropoli. Accade tutte le volte che questa parola di comunità viene ridotta e immiserita nella difesa di nuovi particolarismi, come si dice, di piccole patrie chiuse e murate nei confronti dell’esterno, contrapposte a tutto ciò che non gli appartiene; a ciò che non appare identico, identitario.

Perché è proprio questo che c’è all’origine di tutti quelli che oggi si chiamano i fondamentalismi orientali e occidentali; questo senso angusto delle radici, della terra, della lingua. Della lingua intesa non come ciò che ci rende possibile parlare, ma ciò che impedisce la parola e ci chiude dentro noi stessi. E quindi, ecco, in questa alternativa tra dimenticanza e perversione, la comunità, l’idea di comunità, rischia di trasformarsi o in una sorta di deserto: ciò che non c’è più; o in una sorta di fortezza: qualche cosa di chiuso e difeso da barriere e da muri; rischia, quindi, di scomparire dall’orizzonte del pensiero e anche dall’orizzonte della pratica effettiva.

Proprio per sfuggire a questa doppia contraddizione, a questa minaccia, si chiede un nuovo sforzo di pensiero - parte anche della filosofia -, un nuovo slancio appunto di pensiero, ma anche di prassi, che individui un nuovo linguaggio attraverso cui nominare questo tema della comunità. Un nuovo linguaggio rispetto a quelli tradizionali della filosofia politica, della scienza politica, della sociologia. Perché? Perché proprio a questi linguaggi si deve appunto quella contraddizione, quel paradosso che richiamavo prima, che chiude il pensiero della comunità in questa forma difensiva contro l’altro da sé.

Qual è questo paradosso? Questa contraddizione che, appunto, investe un po’ quasi tutte le concezioni attuali della comunità? Sta nel fatto che si tende a declinare il tema della comunità e del comune in termini di proprietà e di proprio. La comunità viene intesa come una proprietà dei suoi membri, come qualche cosa che li identifica e li chiude in una proprietà comune, in una identità, come si dice. Se, viceversa, noi apriamo un vocabolario e vediamo che significa comune, il vocabolario ci dirà: comune significa il contrario di proprio, è comune ciò che è di tutti, che è di molti, non che è di qualcuno. Al contrario la comunità oggi è pensata proprio come qualche cosa che invece appartiene a coloro che ne fanno parte: evoca l’appartenenza, appunto, l’identità, la mancanza di rapporto con l’altro, la chiusura in se stessa.

Per cercare di sfuggire a questo paradosso, io ho fatto un percorso un po’ più lungo che va all’origine etimologica del termine comunità. Comunità è una parola originariamente latina: communitas, che ha dentro di sé il termine munus. Munus significa “dono”: legge del dono, obbligo di donare qualche cosa, obbligo di curare l’altro. Quindi, originariamente, l’idea di comunità aveva dentro di sé questa idea di una cura nei confronti dell’altro; di una legge e di un obbligo a donare qualcosa di se stesso. Quindi implicava non una forma di appropriazione, di appartenenza, di proprietà, ma semmai una forma di elargizione, di espropriazione, una tendenza quasi a uscire fuori di sé, non a chiudersi in se stessi. Naturalmente questa idea originaria di comunità è stata ed è ancora intesa come un rischio, il rischio appunto di perdere qualche cosa, un rischio di smarrire i confini che ci chiudono nella nostra identità.

E perciò che da tanto tempo è stato messo in moto contro questo rischio, contro questo pericolo della comunità, una logica che io definisco “una logica immunitaria”, un processo di immunizzazione. Vediamo che significa. Voi tutti sapete che con il termine “immunità” si intende in linguaggio medico, in linguaggio biomedico, una forma di esenzioni o di protezione nei confronti di una malattia. E’ immune colui che non può contrarre un’infezione. In ambito giuridico, il linguaggio del diritto, per immunità si intende il fatto che qualcuno è in una condizione di intoccabilità da parte della legge comune. Per esempio un uomo politico, un capo di Stato, un diplomatico, gode dell’immunità perché, appunto, non è esposto ai rischi cui sono invece esposti gli altri, è protetto, è garantito appunto dalla sua immunità. Quindi sia in ambito medico sia in ambito giuridico-politico, per immunità è chiaro che si intende qualche cosa che è proprio il contrario della comunità. Mentre nella comunità, abbiamo detto, almeno nel suo significato originario, c’è questa sorta di uscita fuori di sé, di contatto con gli altri, di relazione con tutti, invece l’immunità rimanda a una condizione particolare di protezione, di esenzione dalla legge, appunto, del dono. E’ immune colui che non deve dare nulla a nessuno. Colui che può restare chiuso e protetto nei propri confini identitari.

Ora le tesi che io vorrei proporre sono due essenzialmente. La prima è che questo dispositivo immunitario, cioè questa esigenza di protezione di cui si è detto (che originariamente attiene all’ambito biomedico e all’ambito giuridico), nel tempo si è andato estendendo a tutti i settori dell’esperienza; a tutti i settori della realtà contemporanea, sempre di più. Certo, ogni società in fondo, anche in passato, ha sempre espresso un’esigenza di autoprotezione. Ma, ecco, la mia impressione è che nella società contemporanea oggi questa esigenza di protezione, di chiusura in sé, sia diventato il perno centrale intorno al quale ruota tutto, sia la pratica effettiva, le pratiche effettive, sia l’immaginario, le pratiche simboliche della nostra società. Per farsi un’idea di questo rilievo crescente dell’esigenza immunitaria si pensi al ruolo fondamentale che ha acquisito proprio l’immunologia, cioè quella scienza medica che si occupa dei nostri sistemi immunitari. Tutti quanti sapete che nei nostri corpi c’è qualcosa che si chiama “sistema immunitario”, che ci protegge dalle infezioni, dal contagio, dalla contaminazione con gli altri.

Questa scienza dell’immunologia è diventata sempre più importante. Pensate che cosa ha significato per le nostre società la malattia dell’Aids, la sindrome, come si dice, da immunodeficienza. Cosa ha significato in termini di normalizzazione dell’esperienza individuale e collettiva. Dove normalizzazione significa assoggettamento ad alcune norme, attenzione, non solo igienico-sanitarie, ma norme sociali. La malattia dell’Aids ha modificato l’esperienza dei rapporti tra le persone. Ripeto, non solamente in chiave, appunto, strettamente sanitaria, ma anche in generale. Ha provocato, negli anni Ottanta, un mutamento nei rapporti, una tendenza sempre più a difendersi, a chiudersi rispetto al rischio del contagio. Quindi ha determinato una serie di barriere socio-culturali nei confronti di tutti i rapporti interrelazionali. Se passiamo dall’ambito delle malattie infettive all’ambito sociale, per esempio dell’immigrazione. Rappresenta un grande fenomeno che abbiamo tutti sotto gli occhi. E abbiamo una conferma di questa importanza sempre maggiore che ha l’atteggiamento immunitario. Nel senso che oggi, in tutte le società contemporanee – a prescindere dal fatto che si abbia torto o ragione – la questione del flusso immigratorio è considerato uno dei problemi, anche uno dei rischi, delle società contemporanee che in qualche modo creano posti di blocco, transenne, nuove linee di separazione rispetto a che cosa? A qualcosa che minaccia – o almeno appare minacciare – la nostra identità biologica, sociale, ambientale. E la stessa cosa – anche se può apparire a prima vista una questione minore – si può dire anche per quel che riguarda le tecnologie informatiche. Quasi tutti voi avrete un computer a casa, ma esistono anche i grandi computer che determinano tutti i rapporti, regolano i rapporti tra le società. E oggi qual è il maggior problema? E’ il problema dell’infezione di nuovi virus che si insinuano dentro queste nostre macchine. E, quindi, anche in questo ambito si creano continuamente dei nuovi apparati antivirali, delle protezioni, per evitare, appunto, il rischio del contagio elettronico. Guardate, questa è una cosa molto importante: ogni giorno si scoprono centinaia di nuovi virus dei computer, e i grandi Stati impiegano delle risorse enormi per costruire degli apparati antivirus, degli apparati immunitari, protettivi.

Nell’episodio delle due torri, nel 2001, l’attacco terroristico, l’Fbi ritiene che sia stato provocato disattivando alcuni dispositivi di allarme con dei virus. E, infine, dopo aver visto questa sindrome immunitaria sul piano medico, sul piano sociale, sul piano informatico, ricordiamo che, anche al centro di molte controversie giuridiche nazionali e internazioni, v’è la battaglia sull’immunità di personaggi politici. Ricordate il caso di Pinochet, l’ex dittatore cileno, di Milosevic e di tanti altri... Ma anche qui nel nostro Paese, c’è una battaglia tra coloro che rivendicano l’immunità, il fatto di non poter essere esposti alla giustizia comune, e una tendenza comunitaria che tende a togliere l’immunità, quindi a rompere le barriere che proteggono determinati personaggi politici. Quindi si vede che anche da questo lato, questa dialettica, questo scontro tra comunità e immunità determina effettivamente anche delle logiche dell’agire politico e giuridico. Quindi anche da questo lato la questione dell’immunità resta al crocevia di tutti i percorsi.

Si guarda, comunque, con preoccupazione a quanto accade al corpo individuale, al corpo sociale, al corpo tecnologico, al corpo politico. Comunque si cerca di impedire, di prevenire, di combattere con ogni mezzo che cosa? La diffusione di un contagio. Un contagio costituito proprio dalla relazione, dal rapporto, dovunque questo contagio possa determinarsi.

Questa preoccupazione autoprotettiva non è solo del nostro tempo, non appartiene solo alla nostra epoca. In fondo tutte le società e tutti gli individui si sono sempre preoccupati di assicurare la propria sopravvivenza rispetto ai rischi di contaminazione e di contagio. Ma oggi a me pare che la soglia di attenzione nei confronti del rischio di contagio – e quindi anche l’entità della risposta – è sempre più aumentata, fino a toccare il suo apice nella società contemporanea. Perché questo? Questo è dovuto a una serie di cause diverse che in qualche modo riguardano ciò che chiamiamo “globalizzazione”, ciò che si chiama oggi comunemente “globalizzazione o mondializzazione”. Perché? Perché quanto più gli uomini - ma anche quanto più le idee, i linguaggi, le tecniche - comunicano e si intrecciano tra di loro (questa è la globalizzazione), tanto più si ingenera come una sorta di controeffetto, di controspinta, una sorta di rigetto immunitario. Quindi, paradossalmente, proprio oggi che il mondo, da un certo punto di vista, è tutto unito, tanto più si determina questa paura della contaminazione. E dunque si creano nuove barriere, nuove chiusure immunitarie. Si può dire che in fondo la caduta del Muro di Berlino, nell’89, la caduta del grande Muro, che sembrava potesse costruire un mondo più unito, in realtà ha determinato la costruzione di tanti piccoli muri, perché, ancora una volta, nella fase globalizzata, nel mondo aperto, tanto più è nata questa preoccupazione di impedire un eccesso di circolazione, e quindi di potenziale contaminazione. Contaminazione, ripeto, non solo in senso biologico e medico: contaminazione, intesa come circolazione delle idee, apertura dei rapporti, perché si è visto in questo un rischio da parte di società, di gruppi o di individui. Quindi da questo punto di vista potremmo dire che il virus, i virus sono diventati, in fondo, la metafora di tutte le nostre paure. Dovessimo simboleggiare le nostre paure, oggi nel mondo contemporaneo, si potrebbe proprio simboleggiarle con il virus. In realtà c’è stata una fase in cui la paura del virus si è attenuata: è stata negli anni Sessanta quando si era diffusa l’idea, ottimistica, che la medicina fosse in grado di vincere alcune battaglie contro le grandi malattie infettive, quando uscirono gli antibiotici, ricordate? Sembrava che il rischio delle grandi infezioni fosse bloccato. Poi, improvvisamente, negli anni Ottanta, si è scoperto l’Aids, che già c’era, si è scoperto e ha cominciato a fare vittime. E allora è come se fosse crollata una diga psicologica, le persone sono state colte – un’altra volta! – da una paura crescente, e quindi i virus sono diventati come una sorta di diavoli, capaci di entrare nel nostro corpo e di risucchiarci nel vuoto della morte. E allora la furia dei virus è apparsa inarrestabile, irresistibile, e quindi anche l’esigenza immunitaria, protettiva, è cresciuta a dismisura. Ecco perché siamo arrivati a questa situazione attuale.

Proprio qui, tuttavia, si inserisce la seconda tesi. La seconda tesi qual è? Che questa immunità, ripeto, necessaria alla vita individuale e alla vita collettiva, se va oltre una certa soglia, ecco finisce per negare quella stessa vita che vorrebbe proteggere. Perché? Perché questa esigenza immunitaria, spinta oltre un certo limite, costringe la vita entro una sorta di gabbia, di armatura in cui si perde non soltanto il senso della nostra libertà, perché libertà significa anche avere rapporti, stare all’esterno, parlare, comunicare, non stare chiusi dentro quattro mura. Si perde non solo il senso della nostra libertà, dicevo, ma anche quella dimensione della circolazione sociale, appunto quella dimensione importante dell’esistenza che io chiamo con il termine, appunto, latino di communitas, cioè la possibilità di uscire da sé e rapportarsi con l’altro. Perché certo se noi restassimo chiusi tutta la nostra vita in una stanza i rischi di contagio sarebbero ridotti a zero, ma si tratterebbe di una vera vita? Cioè di una vita che vale la pena di vivere? Una vita rinchiusa e protetta in una gabbia, in una stanza? Ecco la contraddizione terribile che va messa in luce.

La contraddizione è questa: ciò che salvaguarda il corpo individuale, o il corpo politico, è anche ciò che ne impedisce lo sviluppo, che lo chiude, che blocca il suo sviluppo. E quindi che oltre un certo limite rischia di distruggerlo. Si potrebbe dire – per usare il linguaggio di un filosofo, che si chiamava Benjamin, Walter Benjamin – che questa immunizzazione, ad alte dosi, che cos’è? E’ il sacrificio del vivente, della forma di vita aperta, alla necessità della semplice sopravvivenza biologica. Come se l’uomo, pur di sopravvivere senza rischi, sacrificasse a questa esigenza di sopravvivenza, la dimensione più autentica e importante della vita, che è la vita di relazione con gli altri. Si riduce la vita alla semplice sopravvivenza.

D’altra parte questa contraddizione che vi dicevo, cioè questa connessione tra protezione e negazione della vita, questa protezione autodistruttiva è implicita proprio nella procedura di immunizzazione medica. Lo sapete, come si fa per vaccinare qualcuno? Si immette nel suo corpo un frammento di quella malattia da cui ci si vuole proteggere. Quindi l’immunizzazione procede sempre per via negativa: ci si immette dentro un pò di male per poter evitare un male peggiore. E’ come se per restare in vita bisognasse in qualche modo, uso una metafora, assaggiare la morte. Questo l’elemento di paradosso implicito nel vaccino, nella vaccinazione che è la prima forma di immunizzazione. D’altra parte il vocabolo greco pharmacon significava insieme cura e veleno, medicina e veleno nello stesso tempo. Ed è come se i moderni processi immunitari portassero questa contraddizione ai suoi esiti estremi: oggi sempre più la cura dai rischi di contaminazione si dà nella forma di un veleno, in una sorta di veleno, qualcosa che avvelena le nostre vite. D’altra parte lo stesso paradosso, la stessa contraddizione, si coglie anche proprio nelle nostre società: si alza sempre più la soglia di attenzione al rischio. La televisione, i giornali, che ci dicono sempre? Attenzione, guardatevi da questo pericolo! Quindi alzare sempre di più la soglia di attenzione al rischio significa bloccare, fare regredire la società all’indietro. C’è un punto oltre il quale questa insistenza ossessiva, nei confronti del pericolo, diventa essa stessa un pericolo. E’ come se si anticipasse sempre il rischio per poterlo fronteggiare. E’ un pò lo stesso funzionamento delle compagnie di assicurazione. Che fanno le compagnie di assicurazione? Alzano sempre di più il prezzo, il premio, quanto più il rischio aumenta. Per esempio nella mia città, che è Napoli, assicurare una macchina dal furto costa moltissimo perché il rischio è alto. Si potrebbe quasi immaginare che le compagnie di assicurazione organizzino i furti di auto per poter alzare il premio... è una metafora, un’esagerazione.

Tutto questo fa parte, come dicevo, dell’esperienza moderna, in generale, di questa dialettica tra rischio e protezione. La mia impressione, però, è che oggi stiamo toccando un punto limite. E cioè una linea al di là della quale questo meccanismo - che produce insieme rischio e protezione - minaccia di impazzire. Cioè di uscire dal controllo, di sfuggirci di mano. Ed è esattamente la soglia che stiamo varcando. Per farsene un’idea: tutti sapete cosa accade nelle cosiddette “malattie autoimmuni”, cosa sono le malattie autoimmuni? Quelle malattie in cui il sistema immunitario è talmente forte che si rovescia contro il corpo che dovrebbe proteggere. Mentre, per esempio, l’Aids implica un deficit immunitario, la malattia autoimmune è quella in cui, ripeto, la protezione è tanto violenta che distrugge il corpo che dovrebbe proteggere.

Ora, spostiamoci un poco su quello che accade oggi nel mondo a partire, quanto meno, dagli eventi dell’11 settembre 2001 (l’attentato alle Twin Towers), ma già da prima in realtà. La mia tesi è che questa guerra in corso - perché c’è una guerra in corso – sia proprio legata a doppio filo a questo elemento dell’immunizzazione, questa sindrome immunitaria, cioè che questa guerra sia l’esito e la causa stessa di questo meccanismo di difese immunitarie, di questo eccesso di difesa. Anzi, che questa guerra segni proprio quello che si potrebbe definire una “crisi immunitaria”: un impazzimento del meccanismo di controllo che c’è, che c’era precedentemente nel mondo. E’ come se si fossero incontrate e scontrate due grandi ossessioni immunitarie speculari, contrapposte e identiche. Da una parte l’ossessione dell’integralismo islamico, l’ossessione, cioè, di non farsi contaminare dalla cultura occidentale, di non fare contaminare la sua pretesa purezza: una sindrome immunitaria. Dall’altra, anche l’Occidente ha avuto, e ha, una ossessione immunitaria. Qual è l’ossessione immunitaria dell’Occidente? Quella, appunto, di proteggere la propria ricchezza, i propri privilegi, rispetto al resto del mondo affamato che sta ai suoi confini.

Ora, quando queste due ossessioni immunitarie si sono incontrate e scontrate, là è nato questo conflitto. Il mondo è stato colto da una scossa, da una convulsione, che ha proprio (se ci pensiamo) il carattere di una malattia autoimmune. Come se il mondo avesse oggi una malattia autoimmune. L’eccesso di difesa, sia ad Est, sia ad Ovest, ha determinato qualche cosa che minaccia di distruzione tutto il mondo, il mondo stesso in tutta la sua complessità. Quindi quello che è esploso, con le Torri Gemelle di Manhattan, è stato, si potrebbe dire, proprio il sistema immunitario che reggeva il mondo, fino allora. E non si perda di vista anche il fatto che tutta questa vicenda, questa tragica vicenda, si è svolta, si svolge in quello che possiamo definire il “triangolo del monoteismo”. Quali sono le tre grandi religioni monoteistiche? Il Cristianesimo, l’Ebraismo, l’Islamismo. Queste religioni in sé hanno, diciamolo, anche dei grandi tesori spirituali, però quando si traspone il monoteismo religioso in monoteismo politico allora si crea, diciamo, si scatenano le potenze di morte. Ed è ciò che è accaduto. E’ accaduto dentro questo triangolo. Perché tutto questo conflitto non avviene, per esempio, nel mondo buddista, nel mondo induista. No, sta dentro il mondo monoteista. Perché? Si potrebbe dire in fondo che le civiltà – Islamismo, Cristianesimo, Ebraismo – si scontrano non tanto, come si dice, perché troppo diverse, ma perché tutte quante troppo legate alla logica dell’uno. Monoteismo significa la logica dell’unità. Questa logica monoteistica assume, ad Oriente, la figura dell’unico Dio, del Dio del Corano, che dice: io sono il Dio e dovete obbedirmi. E in Occidente qual è il dio, il dio monoteistico che governa tutto? Il denaro. Il denaro è il nostro dio. Quindi sono due dii contrapposti, due logiche dell’uno, due logiche monoteistiche che si scontrano con effetti letali, appunto, gli effetti di una guerra terribile. E quindi questo in fondo è, come dire, la posta metafisica, filosofica di questa guerra. Al di là del petrolio, delle bombe, della sabbia... la posta metafisica di questa guerra qual è? E’ la volontà di dare a tutto il mondo una verità. Una verità che esclude le altre verità. Quindi oggi abbiamo lo scontro tra due verità parziali che vogliono diventare, ambiscono a diventare verità totali. Abbiamo detto, da una parte la verità del fondamentalismo islamico, la verità piena; dall’altra la verità, potremmo dire così, vuota dell’Occidente. Qual è la nostra verità, la verità dell’Occidente? La verità dell’Occidente è che non esiste verità, che conta solo il guadagno, la tecnica, la capacità di ottenere i propri scopi. Questa è la verità dell’Occidente. La verità dell’Occidente è che non c’è verità: c’è solo il principio di prestazione, di guadagno. Dall’altra parte, invece, una verità piena, fondamentalista, anch’essa chiusa su se stessa. Quindi quando queste due verità – una piena e una vuota – si sono scontrate appunto il mondo è entrato in fibrillazione, perché ognuna di queste verità si vuole imporre contro l’altra, non ammette che esistano altre verità, non ammette che esiste neanche qualche cosa di esterno.

Ecco la logica del monoteismo, da tutte e due le parti del mondo, non si ammette che esista qualche cosa fuori del proprio punto di vista.

Poi, come sapete, questa guerra in corso – nata quindi da una logica immunitaria – ha prodotto nuova ossessione immunitaria. Ricordate quando, dopo l’attentato del 2001, si è cominciato a temere l’antrace, l’infezione virale, l’infezione biologica, si aveva paura a viaggiare, non si poteva mandare neanche una lettera perché pure nelle lettere c’era la paura che ci fosse qualche cosa... insomma, quale immagine del mondo veniva fuori? Questo mondo totalmente immunizzato. Un mondo fatto da uomini intubati dentro maschere antigas che si temono, che si guardano a distanza l’un l’altro. Questa era l’immagine, l’immagine terribile cui perviene questa logica immunitaria portata ai suoi limiti, oltre i suoi limiti, all’eccesso. Del resto anche oggi la minaccia più forte – almeno quella che si avverte come più forte – è proprio costituita da un attacco biologico. Che cos’è un attacco biologico? Pensiamo alla figura del kamikaze; cos’è la logica del kamikaze? Il fatto che la vita umana sia minacciata non solo dalla morte, ma da un’altra vita, un uomo vivente che è esso stesso un proiettile mortale che, appunto, produce morte. La vita che produce morte. Questa è la logica del kamikaze. E, dall’altra parte, in una forma speculare, come è noto, per esempio nella guerra in Afghanistan gli stessi aerei hanno sganciato, sugli stessi territori, viveri e bombe, nello stesso tempo, bombe e medicinali, la guerra umanitaria... come si dice. A riprova del fatto di come, appunto, vita e morte ormai si siano strette in una relazione che è difficile sciogliere, dentro questa logica difensiva ad oltranza e dunque offensiva contro l’altro da sé.

Ora, senza aprire adesso un discorso, che sarebbe troppo difficile, sulle responsabilità politiche, sociali, culturali di tutto questo, di questo stato di cose, mi atterrei a questo dato, questo dato strutturale e cioè che il mondo affidato ad un regime immunitario – il mondo, cioè la vita umana nel suo complesso – non ha grandi probabilità di sopravvivenza. Diciamocelo chiaramente. Se si va ancora in questa direzione, sempre più in questa direzione, il mondo, la vita, non ha grandi chance di sopravvivenza. D’altra parte immaginare di risolvere questa complessa vicenda con gli strumenti del vecchio lessico politico – le istituzioni giuridiche, i diritti - le vecchie parole della politica non fa fare un vero passo avanti. Io, se dovessi usare una formula direi così: oggi non è più la vita che può essere salvata dalla politica, ma semmai è la politica che può essere, in qualche modo, salvata o almeno rivitalizzata dall’idea di vita. E’ la politica che può essere ripensata a partire dall’idea di vita, ma quale idea di vita? Perché la vita, l’idea di vita, possa indicare un nuovo orizzonte alla politica, possa rivitalizzare la politica, occorre che la vita stessa sia pensata come qualche cosa di molto complesso. Cioè non come il semplice filo che unisce la nascita alla morte, non come il semplice filo biologico. Pensiamo a immaginarlo, a trasporlo questo fenomeno simbolicamente nelle relazioni interumane all’interno del mondo. E’ evidente il carattere di metafora. Cioè, nel caso della gravidanza è proprio in base alla diversità che un estraneo viene accolto, non in base all’identità ma in base all’estraneità. E’ un estraneo, perché ogni nato, ogni bambino viene al mondo, appunto, come un estraneo, come uno straniero rispetto alla stessa madre, è un altro essere, un altro essere umano, è un essere umano fornito di una diverso Dna. E quindi la madre contemporaneamente, diciamo il sistema immunitario della madre, in qualche modo tiene conto di questa estraneità, ma la scintilla di questo incontro è la scintilla della vita. Quindi lo straniero, l’estraneo viene custodito proprio in base alla sua estraneità. Il nato è colui che, appunto, non soltanto è il diverso, ma addirittura lo straniero almeno una volta, per la prima volta - la nascita è sempre la prima volta - è ospitato non nonostante, ma in ragione della sua diversità. E c’è qualche cosa ancora di più che si può dire. Ed è la circostanza che l’esperienza del nascere, dal punto di vista della madre, quello che si dice “mettere al mondo” qualcuno, “dare alla luce”. Questa esperienza all’interno del sistema immunitario – perché la madre ha un sistema immunitario funzionante – anziché proteggersi negando la vita, si ha affermando una vita, non negando la vita.

Il “venire al mondo” ha dentro di sé questo atto di affermazione totale, in cui la protezione fa tutt’uno con l’affermazione, non con la negazione. Almeno in questo caso, in questo caso originario, natale, quindi la conservazione, la protezione fa tutt’uno con l’innovazione. Da questo punto di vista, ecco, allora si può vedere che cosa? Che in fondo anche il sistema immunitario se è giocato in un certo modo, se è visto in una certa maniera, non è detto che debba essere una barriera difensiva, qualcosa che chiude rispetto all’esterno, ma può essere visto – così è nel caso della gravidanza – come qualche cosa che mette in rapporto, al contrario, due estranei. Quindi dentro di sé ha proprio quella nozione di dono implicito nell’idea di munus, all’origine dell’idea di communitas. E’ qualche cosa, la nascita, che ha a che fare con quella comunità originaria fatta da coloro che donano, che sentono una legge, un obbligo di donare qualcosa all’altro. Quindi la nascita richiama il munus, nel senso del dono, come vi dicevo, perché la vita è stata donata, e ogni nato è esso stesso un dono: qualcuno ci ha dato la vita. Il corpo della madre si è diviso in due, in un certo senso, anziché la logica monoteistica dell’uno in cui si cerca di ridurre il due all’uno, nel caso della nascita è un uno, il corpo della madre, che si sdoppia, si divide in due, esce fuori di sé. Certo c’è l’elemento del rischio, la nascita è un rischio. E’ un rischio per la madre, è un rischio anche per il figlio che nasce, che viene al mondo e che quindi viene esposto ai rischi dell’esistenza. Il nato è costitutivamente esposto, perché si taglia il cordone ombelicale che lo proteggeva, e il nato entra nel mondo: è l’esposto. Quindi c’è questo elemento proprio dell’esposizione al mondo del bambino nato senza protezione, senza padre. La nascita è un dono, è un rischio, ed è, infine, anche una legge. Una legge, è una legge, un obbligo morale che implica il fatto che la vita dovrebbe significare l’accoglienza dell’altro, del nato, dello straniero, del diverso. E voi capite bene se questa metafora, se questo simbolo, se questa realtà della nascita e della gravidanza si generalizzasse nei rapporti tra gli uomini, il mondo sarebbe insieme più sicuro, più pacifico e più libero.

Roberto Esposito

Nessun commento: