venerdì 30 marzo 2007

Europa e mondo

di Biagio De Giovanni

L’Europa e la filosofia

1. La filosofia non è mai stata un impaccio per l’Europa, e tanto meno un lusso. E’ piuttosto ciò che sempre le ha dato identità, nel senso che Federico Chabod intuì quando scrisse, nella sua “Storia dell’idea di Europa” (ebbi la fortuna di ascoltare quella sua lezione), che essere europei, appartenere all’Europa, ha implicato sempre un atto di “coscienza”, un processo di riconoscimento riflessivo, si potrebbe dire, che si sviluppava intorno a una idea centrale, interamente erede della grecità, che opponeva al dispotismo asiatico la libertà europea. Antico tema, antica forma di coscienza e di autorappresentazione, risalente a Erodoto e alle fonti della storiografia greca e che si è prolungata nel tempo, mutando naturalmente secondo i tempi, ma conservando quel costante riferimento alla libertà e quel costante riconoscersi per opposizione, per contrasto, che ha restituito il senso di una identità mobile, diveniente, produttiva di sé. Attraverso la filosofia, si può dire, l’Europa ha prodotto se stessa, la propria coscienza, al punto che i suoi confini geografici sono stati sempre mobili, anch’essi in divenire, come se il problema dell’identità europea non fosse consegnato alle frontiere, quanto alla capacità di pensare il proprio spazio intorno al principio della libertà, uno spazio dunque in sé mobile e aperto. Qui è dunque il nodo originario dell’identità europea, ciò che le ha permesso di prendere il via, di costruire la propria autonomia dalla ferrea staticità asiatica che, gigantesca, incombeva su di essa, pronta ad affermare la propria egemonia. Nello scontro fra la polis greca e l’impero persiano c’è, come intorno a un nodo essenziale, il senso di quella opposizione calata drammaticamente nella lotta e nel contrasto. Quel piccolo promontorio dell’Asia che si chiamò “Europa” è da lì che conquistò se stesso, la propria autonomia, e anche la propria violenta volontà di affermazione. Da lì, si potrebbe dire, il suo logos, sempre frammisto alla sua potenza. Ma in quel logos, definito nei grandi testi della filosofia greca, ciò che emergeva era il senso del “divenire”, di una verità per niente statica, ma come esposta al fare e alla creazione di un mondo. Il divenire è diventato il senso di Europa, quello che ha raccolto problematicamente la tensione della sua libertà. E’ su questo tema, con riferimento alla coscienza dell’Europa moderna, e a Hegel in particolare, che voglio svolgere alcune riflessioni.

2. Hegel è il punto più alto di una visione eurocentrica della storia. Dopo di lui, le cose incominciarono a cambiare, come vedremo più avanti e tutto l’asse della rappresentazione europea incominciò a spostarsi in altra direzione. In Hegel maturò al massimo grado quel rapporto intrinseco fra l’Europa e la filosofia che oggi torna di particolare attualità in una congiuntura che è tutta da pensare. E la cosa particolarmente interessante, per la nostra breve ricostruzione, sta nel fatto che la sua veduta si formò nella contrapposizione oriente-occidente, in una idea spaziale della filosofia della storia del mondo ispirata certamente alle rappresentazioni di Karl Ritter, come Hegel stesso riconosce in più punti. Da Oriente a Occidente, si muoveva il corso della storia, secondo un moto che ha nella libertà il principio che ne rappresenta la natura. Nell’Oriente, tutto è statico; in Occidente, quell’Uno immobile in se stesso si rompe nel molteplice, e si fa vita e divenire. Straordinari testi della “Filosofia della storia” indicano questo movimento. “La magnificenza dell’intuizione orientale ci è innanzi agli occhi: l’intuizione di quest’Uno, di questa sostanza cui tutto appartiene, da cui nulla ancora si è separato”. E la cosa che voglio qui particolarmente valorizzare è che questa visione orientale dell’Uno si riflette immediatamente nell’organizzazione del potere. Hegel infatti aggiunge: “L’idea fondamentale è quella del potere saldamente e organicamente costituito, padrone di tutte le ricchezze della fantasia e della natura. La libertà soggettiva non vi è ancora giunta a veder soddisfatta la sua esigenza”. E l’ulteriore conseguenza suona come un improvviso calarsi del suo discorso in una rappresentazione della storia concreta e di quello che poteva essere il suo destino. “Perciò accanto agli edifici della sostanzialità orientale si trovano anche le orde selvagge, che dall’orlo dell’altipiano calano sugli edifici della quiete, li devastano e distruggono, così da rendere brullo il suolo”. “Sostanzialità” e “orda” si accavallano l’una sull’altra, quasi a mostrare la rappresentazione del mondo prima della Mediazione, che si può incominciare a immaginare quando il mondo accoglie in sé la molteplicità, e la Sostanzialità scende dal suo trono per misurarsi con l’irrompere della libertà soggettiva. Qui, in questo punto preciso, si delinea lo strappo dell’Occidente, di Europa. Lo strappo: giacchè solo questa espressione, che ha una sua fascinosa violenza, può lasciar intendere il senso aurorale di una idea nascente la cui forza sta proprio nel suo riconoscersi per opposizione, e nel suo costruirsi esponendosi alla molteplicità e al divenire, e insomma nel suo strapparsi dalla magnificenza dell’Uno, che da questo punto di vista appare destinato all’entropia. Anche qui, secondo l’antica rappresentazione greca, l’Europa si forma per contrasto, per opposizione, distaccandosi da quella immobilità asiatica che voleva fagocitarla, e riconoscendosi in un altro logos, in un’altra forma della ragionamento e del linguaggio che è data dall’Uno che diventa uno-molteplice. Ricordate la Sostanzialità orientale, citata un momento fa come l’immobile Uno che tutto vuol ricomprendere nella propria staticità? Lo strappo dell’Europa prende l’avvio non dalla semplice distruzione di quell’Uno, ma dal suo moltiplicarsi, dal suo diventare uno-molteplice, uno che si rompe in sé stesso nella propria differenza. Insomma, il passaggio non è dall’Uno al molteplice, ma dall’Uno all’uno-molteplice, dove il primo termine non è se non nella differenza, e l’identità non si chiude nella sua splendida magnificenza, ma si misura con la costruzione del mondo. Uno-molteplice, dunque: è comparsa la Mediazione, ciò che deve tenere insieme gli opposti, quella Mediazione che non poteva comparire e rappresentarsi finchè l’Uno si teneva stretto in se stesso, riparato e corazzato in sé. Ma l’ulteriore conseguenza, che Hegel sviluppa lungo tutta la sua opera, vera presa di coscienza che l’Europa sviluppa di se stessa, sta nel dire: se l’uno nasce come molteplice (è sempre molteplice), ciò indica che il momento dell’identità si può cogliere soltanto nel divenire, che l’identità non “è” semplicemente, ma è non-essendo, è “divenendo”, è identità che è, insieme, non-identità. Anche qui Hegel trae immediate conseguenze sulla natura e struttura del potere politico.In fondo, in una identità così concepita, essenziale diventa il tema del “riconoscimento”, nel senso che l’identità astratta (la magnificenza dell’Uno) basta a se stessa e tutto riduce sotto di sè, mentre l’identità in sé differente ha bisogno dell’alterità, e il suo compito sta nelle forme del riconoscimento di questa alterità che l’identità comprende dentro di sè, non deve ricercarla fiuori, all’esterno. Dicevo, conseguenze sulla natura e la struttura del potere politico. Non più “Sostanzialità” e “orda”, secondo l’icastica sintesi hegeliana, ma polis, luogo e spazio della mediazione. La polis è il luogo dove si realizza la continua mediazione fra l’uno e il molteplice, il luogo di nascita della libertà europea. Essa è la costruzione morale e politica che permette di battere la potenza distruttiva del tempo. “Così i greci parlano del dominio di Kronos, il tempo, che divora i suoi figli, cioè i fatti che essi stesso ha generati. Solo Zeus, il dio politico…ha vinto il tempo in quanto ha creato una consapevole opera morale, producendo lo stato”: è ancora la “Filosofia della storia” di Hegel a compiere questo passo decisivo, a ergere la polis (l’opera morale e statuale) contro la minaccia del nulla. La polis, dunque, all’origine di Europa, che diona all’Europa un tratto inconfondibile della sua idenrtità. Ma perché Hegel avverte quella necessità, e svolge quel passaggio? Non era possibile immaginare che fosse proprio la sostanzialità orientale a vincere la potenza distruttiva del tempo? Che fosse quell’Uno privo di differenza a segnare i confini fra l’eterno e il finito? No, perché quell’Uno segnava un falso confine fra il finito e l’eterno, immobilizzava questo e disperdeva l’altro (sostanzialità e orda) esponendolo alla inanità e al niente, mentre all’origine stesso della mediazione fra l’uno e il molteplice e della solida costruzione greca della polis, alla quale è consegnata la luminosità dell’origine, si disegna l’orizzonte che dà a questa “origine” il senso di una libertà che forma storia e riconoscimento, e ferma nella finitezza, nella diversità, il significato profondo di una identità.

3. E tuttavia quella proposizione di Hegel è rivelatrice di un problema decisivo. La polis vince la minaccia del nulla, ma da dove proviene questa minaccia che dunque grava sull’Europa? Perché Hegel sente il bisogno di porre il problema con intensità lungo pagine decisive non solo della “Filosofia della storia”? La ragione è tutta inscritta nelle movenze concettuali con le quali Hegel ha posto il problema del “cominciamento” e ha criticato ogni rappresentazione statica e meramente identitaria della stessa origine. La ragione è inscritta, dunque, proprio nella instabilità del fondamento che dà vita a tutto, nel fatto che esso è un fondamento che non fonda, o, per meglio dire, non è separato da ciò che fonda. L’identità (che dà vita alla filosofia e dà vita a Europa), ricordiamolo, è non-identica con sé, ma si rompe in lei stessa in diversità. Dunque, la scissione è in agguato. La crisi è possibile. All’origine, non c’è una garanzia statica, che peraltro, per le ragioni indicate, non sarebbe affatto una risposta persuasiva ma solo una falsa e immediata negazione della differenza. L’identità è fin dall’origine non-identità, perciò nasce con la potenzialità della crisi. E la cosa è tanto poco ipotetica e solo legata alla “natura” dell’identità, che avviene proprio che lo stesso tempo di Hegel sia tempo di scissione e di crisi. Ricordiamo tutti i passaggi iniziali della “Differenza fra i sistemi di Fichte e di Schelling”, ma non è qui il caso di insistere sul tema. Dato essenziale è rilevare che la minaccia del nulla sta tutta dentro quella logica del “divenire” che appartiene all’origine di Europa e dà la fisionomia alla sua storia. E’ come se Hegel presagisse ciò che Nietsche avrebbe detto, spezzando il nesso fra identico e non-identico, e rigettando nella pura forza l’origine di Europa e attraverso di essa fissando l’origine del nihilismo. Ma su questo, più avanti. Per ora resta da fermarsi con maggior precisione sulla domanda: come risponde Hegel a quella minaccia che sembra indebolire “l’origine”, e dunque mettere in discussione la forma stessa della libertà europea? Il suo sforzo sta anzitutto nel ribadire che, abolendo la staticità del fondamento “orientale”, non scompare la forza dell’essenza, e tutto non si riduce a un divenire privo di senso. Hegel scrive: “L’essenza è passata nell’esistenza, in quanto l’essenza come fondamento non si distingue più da sé come dal fondato, ossia in quanto quel fondamento si è tolto”. Il fondamento si è tolto, ma sta divenendo; l’identità è da sempre molteplice, ed essa si mette a rischio esponendosi al molteplice, ma cercando di non perdere il proprio rapporto con il logos e l’essenza. Qui è il senso dello strappo europeo dal principio orientale, e il traumatico cominciamento del rapporto tra sapere, filosofia e mondo, comin ciamento della filosofia e cominciamento di Europa. Perché traumatico? Ancora una volta, per la dimensione determinante del nulla. La realtà spunta da un abisso: perciò, nel cominciamento della logica, l’essere richiama il nulla, l’indeterminazione necessaria a una identità che non ha il fondamento dietro di sé. Ma val qui la pena di osservare che questa situazione segnala, insieme, la nascita della filosofia e la nascita dell’Europa come coscienza di sé. L’Europa è, come dicevo all’inizio, la propria filosofia, si produce come pensiero dell’identità di identità e non-identità (di unione di unione e non-unione, come Hegel scrisse nel “Frammento di Francoforte”), e da qui proviene il tratto creativo della sua storia, il fatto che essa non è ma si fa, produce spazi aperti, senza confini, si fa, si incarna, è insieme potenza e libertà proprio come incontro-contraddizione dell’uno e del molteplice. E qui si scopre anche la dimensione tragica e niente affatto conciliatoria della filosofia hegeliana che si muove (e fa muovere l’Europa identica alla propria filosofia, prodotta da essa) fra il logos che trattiene e “costituzionalizza” la potenza e la potenza che si libera dalle maglie del logos, in una visione insieme appropriativa del mondo e capace di riconoscimento universale.

4. Dove si definisce tutto questo scenario? Possiamo dire: nella dialettica del riconoscimento,e anzi meglio nella lotta per il riconoscimento a cui sono dedicate pagine famose della “Fenomenologia dello spirito”. Anche qui, strappo dal principio “orientale”, che non implicava questa dimensione, essendo l’Uno corazzato nella propria identità, non bisognoso di riconoscimento, ma autofondato nella sua “magnificenza”. L’Uno che, invece, è intrinsecamente molteplice germina riconoscendo la propria molteplicità, l’interna diversità che lo fa essere. E’ questa diversità che dà i colori del mondo. Ma essa non è un dato, e per la sua stessa natura implica la diversità di ciascuno, il collocarsi della diversità nell’identità di ciascuno. Ciascuna diversità è di fronte all’altra, e il tema del riconoscimento si fa strada da sé, come intrinsecamente legato a quell’uno-molteplice da cui tutto comincia e che è la sostanza dello strappo europeo contro l’immobilità asiatica. Il riconoscimento diventa lotta per il riconoscimento perché le diversità non sono neutralmente attraversate dalla vita, ma ciascuna vuol diventare coscienza di sé e si presenta di fronte all’altro come coscienza di sè, autocoscienza. Ecco lo splendido commento di Hyppolite: “Perché la certezza dell’autocoscienza non resti soggettiva, è necessario che l’altro si presenti come questa pura certezza di sé. Questi due “me” concreti che si affrontano devono riconoscersi reciprocamente come tali che non sono solo “cose viventi”, e questo riconoscimento non deve essere un riconoscimento solo formale”. Dunque, la lotta per il riconoscimento si sviluppa secondo una logica intrinseca che è la seguente: la vita deve diventare autocoscienza, coscienza di sé d’ognuno, ma, nell’atto in cui ogni vita diventa coscienza di sé, la libertà di ciascuno diventa la condizione della libertà di tutti. E’ naturale che ci si riferisca qui alla dialettica servo-padrone dove si disegna l’orizzonte dell’Europa moderna. Il risultato di questa dialettica, di questa lotta estrema, per la vita e per la morte, è appunto il reciproco riconoscimento, il cui germe è in quella origine che dice: mai l’identità è semplice identità con se stessa, mai l’uno è semplice opposizione al molteplice. Il risultato è, dunque, che solo chi riconosce sé riconosce l’altro, solo chi riconosce l’altro riconosce sé. La libertà diventa mondo, ecco l’esito della “Filosofia della storia” e della lettura hegeliana della rivoluzione francese. La libertà interna al riconoscimento reciproco si fa polis e Stato, quella polis che vince la potenza distruttiva del tempo. L’Europa moderna è uscita dal suo bozzolo, combattendo l’ultima sua battaglia contro la libertà assoluta e il terrore giacobino produttivi di morte, singolarmente da Hegel attribuiti a una sorta di ingresso del principio maomettano e orientale nella storia d’Europa. Dunque, fine della storia? Non è questo l’esito hegeliano ed è assai importante ribadirlo nel momento in cui la filosofia ricomincia a occuparsi di Europa, e cerca di riprendere fra le sue mani il filo di una storia che vuol tornare (forse) a misurarsi con il mondo. La libertà che si fa mondo apre una storia nuova. Hegel non è il filosofo della conciliazione della storia con se stessa, ed egli è ben esperto della tragicità implicita nella realizzazione della libertà (la libertà che si fa mondo, che chiede di farsi mondo). L’abisso del nulla e il “novum” da creare sono ambedue interni alla dialettica della libertà. La mediazione e la scissione sono compresenti, e nessun armonioso finale è previsto.

5. L’orizzonte di Hegel, così disegnato, è esposto alle filosofie della decostruzione. E’ esposto alla crisi, precisamente come esposta alla crisi è Europa che coincide con filosofia, e che è implicata nelle sorti di questa. Perchè? E’ quell’originario crinale su cui germina e si sviluppa la coscienza europea che lo spiega. Quella identità non identica a se stessa che espone il logos europeo alla potenza e alla violenza. E’la mediazione a essere in discussione. La sua capacità di tenere insieme i suoi due poli, quelli che, tenuti insieme, danno vita alla polis, unità di logos e potenza, di libertà e forma (l’origine luminosa della grecità) e che tendono a scomporsi, a rompere la loro relazione. Da Nietsche, il processo va in questa direzione. La Grecia, da luminosa origine, tende a trasformarsi in abisso di potenza, e l’origine di Europa tende a collocarsi in questo abisso. E’ la non-identità a irrompere come pura potenza, pura apertura al divenire senza senso e senza direzione. La mediazione diventa impossibile e non c’è che da riconoscere la sua bancarotta. Non c’è più un’alba da riaccendere (l’alba della grecità) per rispondere alla scissione del tempo, ma c’è solo da riconoscere proprio questa scissione come costitutiva dell’umano. L’Europa è il nihilismo, la pura potenza che sviluppa se stessa, sospesa fra quella che Nietsche chiama la sua “virilizzazione” e la sua decadenza per la perdita di centralità che ne affligge la storia. Quella sovranità, che Hegel aveva visto come sinolo di logos e potenza, austera mediazione che dà forma alla vita, si trasforma in mera forma della violenza, e, presa in questa logica, annuncia la propria palinodia. Si sgretola come forma dello Stato, si fa “eccezione”, guerra, o si annulla nella vita, cercando le forme disperse del suo disciplinamento, asrcigno e privo di luce. Si può fare qualche nome, nel Novecento, che si costituisce nell’atmosfera di Nietsche anche quando sembra rifiutarlo. Bataille, che opera la decostruzione di Hegel attraverso il suo hegelismo “letterale”, assumendo il comunismo come l’ultima apparizione della sovranità, ormai esposta alla propria dissoluzione. Foucault, che fonda un corto circuito fra potere e vita tale da rompere l’idea di comunità politica e il suo logos. Schmitt, consapevole più di ogni altro della fine dell’eurocentrismo, e dunque di Hegel, e dunque di Europa, che immagina uno spazio del mondo senza forma, esposto a ogni rischio, privato di quel nomos che solo l’Europa aveva saputo dargli. Ma che cosa rappresentano, oggi, le assai percorse vie della biopolitica se non un processo dissolutivo della forma politica? Esse dichiarano di voler mettere in discussione l’intero paradignma storico-concettuale della filosofia politica moderna attraverso la sua radicale riduzione teorica. Ma non è anche, questo, il ritorno della finis Europae? Una riprova, si potrebbe aggiungere, di quella implicazione profonda dell’Europa nella sua filosofia che ne segna origine e destino.

6. Ora, la tesi che qui voglio brevemente esporre, è che andiamo forse verso l’esaurimento delle filosofie delle decostruzione. Che sta per iniziare una fase nuova nella riflessione dell’Europa su se stessa, e che la filosofia ne è, in parte, protagonista necessaria se è vero che attraverso la filosofia l’Europa ha prodotto la propria idea e si è dato un modo di pensare se stessa e il mondo. Se le filosofie della decostruzione tendono a coincidere con le filosofie della finis Europae, sono proprio queste filosofie, oggi, in sia pur problematica discussione. Quelle che ho chiamato, con qualche approssimazione, filosofie della decostruzione, commettono un errore di “storicismo”, vero paradosso per filosofie che dichiarano il proprio intento “topologico” e per filosofie che germinano dalla critica al sistema hegeliano che si considera storicistico per eccellenza.Vediamo meglio. L’esigenza topologica richiama, riflettendo sul rapporto passato-presente,. inclusione, compresenza, tempo del concetto, non tempo lineare come accumulazione di verità. Implica ripensamento dello spazio, compresenza nello spazio e nel tempo. Lo si voglia o no, il tempo dello storicismo è tempo lineare, che vede un “prima” e un “dopo” scanditi nettamente da superamenti e inveramenti. E’ invece proprio la necessità del metodo topico che qui intendo rivendicare, e muovere da questa rivendicazione per meglio comprendere i limiti delle filosofie della decostruzione. Assumendo questo atteggiamento, si vede che gli elementi della mediazione “sparsi e slogati”, per usare aggettivi vichiani, mantengono la loro permanenza entro lo scenario della crisi. Bisogna cercarli, inseguirli, auscultarli, nella consapevolezza che proprio la scissione profonda del nostro tempo ne richiede la necessità non come necessario elemento salvifico, ma come risposta alle tensioni catastrofiche del mondo. Non è necessario, insomma, che la nediazione si riappropri della storia, ma si deve sapere che la sua verticale caduta accentua le potenzialità catastrofiche insite nello scenario globale. Quello che le filosofie della decostruzione hanno lasciato dissolvere è il nesso potere-libertà, o affermando una libertà che coincide con i confini della vita, o sottoponendo la vita a un disciplinamento frammentato ed esteriore che spezza ogni riconoscimento possibile. Non si tratta di tornare alla vecchia mediazione, o. per dirla in breve, dì tornare a Hegel, ma di auscultare il suo pressante richiamo e riconoscere le sue possibili forme attuali.Lavorarare, sapendo che nessuna filosofia della storia garantisce questo lavoro, e che però la responsabilità verso il mondo lo impone.

7. Come si disegna oggi la scena globale? Non certo nella chiave di una omologazione universale, come si pensò un decennio fa all’incirca, quando questa forma di omologazione immaginata fu all’origine dell’idea che la storia fosse giunta alla fine. Certo, gli spazi sono diventati senza centro, “acosmici” come qualcuno dice. Ma il globalismo non mostra affatto una fisionomia omologante, e va piuttosto sviluppando una controfaccia “identitaria”, un ritorno fortissimo e diffuso di identità rivendicate, un nuovo fondamentalismo delle identità insomma, quasi che questo fenomeno sia la controfaccia dell’altro, e tendenze identitarie e tendenze omologanti si stringano in un nesso contrastato e gravido di rischi. Ma se le cose stanno così (e chi vuole approfondire il tema oggi può leggere il bel libro di Giacomo Marramao “Passaggio a occidente”), è proprio l’irrompere del ricordato radicalismo identitario, con tutto ciò che si trascina dietro di ritorni etnico-religiosi, di neo-nazionalismi a sfondo dispotico, e di fenomenologie le più diverse legate a questi atteggiamenti, a ridar corpo alla verità di Europa, e all’autoriflessione dell’Occidente su se stesso. E’ curiosa la cosa, e il nodo è difficile da districare: l’occidente è certamente all’origine del globalismo nato dalla dispersione del vecchio nomos della terra che soprattutto l’Europa diffuse, ma quell’occidente, che è alle origini del globalismo, è indotto, da questo stesso globalismo e dai suoi effetti, a ritornare su se stesso, e a riflettere su se stesso. Un terribile incastro, che si presenta come scenario storico: ma la storia fa questo e altro! Ora, che cosa si vuole intendere con questo? Che l’Europa (questa articolazione dell’occidente) non può non tornare a pensare sulla propria identità, pena la propria emarginazione. Ma, per l’Europa, pensare la propria identità implica uno sforzo di autoriflessione in grado di riportare all’attualità quella che è stata la sua verità, il suo logos. Per far ciò, forse essa deve disattendere le sirene delle filosofie decostruttive, i richiami suggestivi del loro lessico che sembra più adeguato di altri a stare nel presente, ma in un presente costruito nella neutralizzazione della politica, in uno spazio dove riconoscere l’altro è disconoscere sé, annullarsi in una scena sacrificale, o riconoscere sé è disconoscere l’altro, far violenza all’altro secondo il ritmo imposto alle cose dalla pura potenza. Essa si deve collocare in quello spazio dove torni contemporanea la lotta per il riconoscimento (reciproco) che muove dall’idea che riconoscere l’altro è anzitutto riconoscere se stesso e reciprocamente, e che nessun riconoscimento è possibile di là dal farsi di ogni vita coscienza di sé, autocoscienza, dove è la contemporaneità di Hegel e la possibilità della ripresa di un discorso sull’Europa e l’influenza che un’Europa non eurocentrica può avere sulla storia del mondo.

8. Come? In quali forme? La filosofia sta riprendendo questa ricerca, soprattutto nell’ultimo quindicennio, da quando cioè sono diventate insostenibili sia la retorica sul processo di costruzione dell’Europa sia il rigetto pregiudiziale di un suo ruolo mondiale. La filosofia, appunto, per le ragioni svolte nel testo. Che cosa può significare riconoscersi e riconoscere? Mettere al centro, insieme, il tema della libertà e quello della costituzionalizzazione dell’individuo vitale. L’uno-molteplice riprende la lotta contro l’astratta unicità, fonte di morte, in condizioni nelle quali l’identità delle diversità può portare a luce l’umanità dell’uomo e la costruzione della sua libertà. La ricchezza del pluriverso “costituzionalizzato” può rappresentare una risorsa decisiva per l’umanità del nostro tempo. Una risorsa in un certo senso eversiva, giacchè intende dare una svolta verso una lettura del globalismo che esalta la libera autocoscienza di tutti in un mondo interdipendente. Non sto affatto descrivendo una visione ecumenica del mondo. La lotta fa parte intrinsecamente del tema del riconoscimento; esso, nel mondo moderno, non avviene nel chiuso degli studi accademici, ma nel concreto di società e spazi oggi in grandioso disordine, carico di identità che non intendono collocarsi sul terreno di una riconosciuta universalità, di un compiuto logos delle differenze. La situazione del mondo è insieme ambigua e tragica. Vanno scomparendo gli spazi della neutralizzazione. Lo spazio torna a diventar politico e perciò ha bisogno della mediazione, non intesa come banale indifferenza né come mera registrazione delle “molte culture” che dovrebbero coesistere nella reciproca indifferenza. Ha ragione Cacciari: il riconoscimento è dell’identità nella sua radicalità, non si chiedono addolcimenti retorici, ma identità che vogliono esser se stesse non possono che essere in relazione nella universale interdipendenza. Ma dove l’identità si pone come irriconoscente unicità? Che cosa significa lottare per l’universalizzazione della liberttà? Non ho risposte pretenziose, ma la questione è centrale, come riconosce anche Amartya Sen. E’ in questo quadro che la filosofia europea ha ancora molto da dire. E’ qui che torna la contemporaneità di Hegel, filosofo dell’Europa e della mediazione fra logos e potenza. Ma che significa attualità della filosofia in una Europa non più eurocentrica? Ragioniamo sull’Europa, non sulla sua finis. Il tema è aperto. E anche le grandi domande che si annodano intorno a esso.

Biagio de Giovanni

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