venerdì 30 marzo 2007

Globalizzazione e giustizia

di Salvatore Veca



Le osservazioni sull’idea di giustizia globale e, più precisamente, su alcuni problemi di una teoria della giustizia globale, che propongo in questa relazione, si situano nel contesto della teoria politica normativa o, se si preferisce, nell’ambito delle teorie della giustizia. Un ambito e un contesto più ampio di quello entro cui si definiscono i dilemmi propri del diritto internazionale e del disegno delle istituzioni internazionali. Un ambito in cui ci si mette alla prova nel ricorrente tentativo di giustificare o legittimare istituzioni e pratiche sociali alla luce di un qualche principio o insieme di principi di giustizia.

Cominciamo con una considerazione molto semplice. Per dirla in breve, nell’ambito delle teorie della giustizia il punto in cui siamo è grosso modo il seguente: abbiamo sviluppato, in un’ampia controversia, negli ultimi trent’anni circa, una gamma di offerte filosofiche di teorie della giustizia, fra loro alternative, che si misurano con questioni e dilemmi ben definiti e precisi, sullo sfondo di unità politiche chiuse da confini, stati-nazione.

Su questo sfondo, che chiamo con Juergen Habermas lo sfondo della costellazione nazionale, in cui sono presupposti assetti di istituzioni politiche, si mettono alla prova differenti risposte quanto alla loro legittimità politica in termini di principi alternativi di giustizia. Utilità e diritti, equità e efficienza, libertà e diritti negativi, libertà repubblicana, eguaglianza delle opportunità, eguaglianza delle capacità, reddito di cittadinanza, identità comunitaria, cornice costituzionale, diritti fondamentali di cittadinanza, multiculturalismo e processo democratico di deliberazione: ecco una serie familiare di termini che occorrono nei repertori o nei vocabolari impiegati per il criterio del giudizio politico. E’ di questi termini che ci avvaliamo quando ci misuriamo, in parole povere, con il problema di una società giusta.


1. Ora, i problemi di una teoria della giustizia globale si mettono a fuoco a partire da questo sfondo, ma non su questo sfondo. Il loro sfondo appropriato è, o dovrebbe essere, quello della costellazione postnazionale. Se prendiamo sul serio l’affermazione secondo cui noi non viviamo in un mondo giusto, ci rendiamo conto che questa è la pretesa mena controversa che si possa avanzare in teoria politica normativa. Lo sappiamo: i problemi cominciano subito, appena un passo dopo, quando ci chiediamo come pensare di estendere criteri di giustizia dal versante interno delle unità politiche, delle società giuste o meno giuste o quasi giuste, al mondo giusto o meno giusto e quasi giusto. Come ha osservato Thomas Nagel in un importante e discusso saggio sul problema della giustizia globale, che cosa si debba intendere per giustizia su scala globale è meno chiaro e definito. (1) Possiamo anche essere d’accordo con la constatazione di Nagel, anche se non accettiamo in toto le sue tesi. D’altra parte, vale la pena di chiedersi: come potrebbe essere altrimenti?
Teniamo presente, inoltre, che l’idea stessa di giustizia si può intendere in più di un senso, come suggeriva Aristotele, almeno entro la nostra tradizione: come giustizia nella distribuzione, nello scambio e nella retribuzione. E avremo frammenti o abbozzi o signa prognostica per una teoria della giustizia globale, se pensiamo alle istituzioni internazionali che governano e regolano scambi e allocazione di risorse e beni o ad istituzioni internazionali che hanno giurisdizione. Alcuni dei più importanti mutamenti del diritto internazionale post Vestfalia nell’ultimo mezzo secolo, dai crimini contro l’umanità alle carte dei diritti umani, alla corte penale internazionale, alla controversa questione dell’ingerenza umanitaria, agli sviluppi del diritto internazionale umanitario, si iscrivono in questo abbozzo. Il punto è: come rendere coerente, come trovare una tesi unificante che ci restituisca o almeno ci avvicini ad una concezione plausibile e coerente della giustizia globale?
Torniamo così alla messa a fuoco dei problemi di una teoria della giustizia senza frontiere. Definiamo il primo problema come il problema dell’estensione dei principi di giustizia dal versante interno all’arena internazionale. Il nostro problema è come passare dalla questione della società giusta alla questione di un mondo giusto. Come vedremo, vi sono almeno due modi per tentare di risolvere il problema dell’estensione, un modo che chiamerò per convenzione cosmopolitico, e un modo che chiamerò per convenzione politico. Ma prima di esaminare, come suggerisce Nagel, l’alternativa fra una concezione cosmopolitica e una concezione politica della giustizia globale, dobbiamo misurarci ancora una volta con almeno due famiglie di obiezioni che si presentano prima facie come teoremi di impossibilità dell’estensione. Come sappiamo, si tratta per un verso dell’obiezione del programma del realismo politico. Per altro verso, dell’obiezione del programma di una qualche forma di comunitarismo o di contestualismo. Ora ci interessa chiarire la natura delle due famiglie di obiezioni, alla luce della distinzione fra concezione politica e concezione cosmopolitica della giustizia globale.

2. La tesi del realismo politico, da Tucidide a Hobbes, a Morgenthau, sino alle riformulazioni nella teoria politica contemporanea, blocca la possibilità dell’estensione in virtù di una interpretazione favorita dell’arena internazionale come intrinsecamente anarchica o come uno stato di natura. Come sostiene Thomas Hobbes in un passo giustamente celebre, i Leviatani stanno fra loro in postura gladiatoria. Si osservi che, secondo Hobbes, lo stato di natura non prevede la virtù politica della giustizia. Essa è possibile solo entro il contesto delle istituzioni politiche e, in particolare, della sovranità. Ma proprio perché è possibile risolvere la questione della guerra locale grazie all’istituzione politica, è per questa stessa ragione che non è possibile risolvere la questione della guerra fra unità politiche indipendenti e sovrane. La giustizia, si osservi, presuppone istituzioni sovrane e vale solo entro i contesti domestici. Prima e fuori dello stato non c’è giustizia. Extra rempublicam nulla justitia. Quindi, l’assenza del terzo nell’arena internazionale, come amava dire Norberto Bobbio, blocca la possibilità di estendere principi di giustizia dal contesto locale al contesto globale e di pensare giustizia globale. (Per i sostenitori della concezione cosmopolitica, questa è fonte di disagio e di biasimo e il fatto delle sovranità deve essere contrastato e la loro erosione lodata, perché annuncia una qualche forma di istituzione politica unificata a livello globale. Diversa, come vedremo, è la risposta dei sostenitori di una concezione politica della giustizia.)
Come ho sostenuto in particolare nel secondo capitolo di La priorità del male e l’offerta filosofica, la mia tesi in proposito è che il realismo politico va preso sul serio, ma che non c’è ragione di accettare la sua pretesa di completezza. (2) Il realismo politico – e non il suo ricorrente tentativo riduzionistico- definisce i vincoli entro cui giacciono le possibilità politiche, istituzionali e giuridiche alternative. Del resto, l’idea di utopia ragionevole, che avevo presentato in La bellezza e gli oppressi, lavora proprio per esplorare possibilità alternative, entro lo spazio che il mondo ci concede, per dirla con John Rawls. (3) L’idea di utopia ragionevole si definisce così (per contrasto con l’idea di utopia di società perfetta), ricorrendo allo slogan di Rousseau nell’incipit del Contratto sociale: gli esseri umani come sono, le istituzioni come possono essere. Che un esito sia possibile e faccia parte in questo senso dello spazio delle possibilità politiche come risultato provvisorio, revocabile e tuttavia prezioso dell'esplorazione filosofica è, alla fine, quanto per noi vale alla luce dell’idea di utopia ragionevole.
L'utopia ragionevole funziona nel senso di Robert Nozick come un meccanismo-filtro, piuttosto che come un meccanismo-progetto per i principi di una teoria della giustizia globale. La mia idea è che la giustizia sia virtù dei processi, piuttosto che dei progetti. E questa considerazione che richiama, grosso modo, il senso del percorso che ho seguito nei prolegomena di La bellezza e gli oppressi, sarà sviluppata in modo parzialmente divergente nella conclusione di queste osservazioni sui problemi di una teoria della giustizia globale. In ogni caso, il punto importante che mi sta a cuore è che il senso delle possibilità è sostenuto dalla prospettiva dell’utopia ragionevole e indebolisce le pretese di completezza del senso della realtà, per ricorrere ancora una volta alla storia del vecchio professore di Robert Musil, che dalla durezza degli stipiti della porta traeva le ragioni del senso della realtà, cui associare quelle del senso della possibilità.

3. Consideriamo ora la natura della seconda obiezione: quella del contestualismo. Come sappiamo, l’obiezione è basata sull’idea che la validità di criteri o principi di giustizia è vincolata dai contesti, dalle forme di vita o dalle tradizioni entro cui essi sono generati, apprestati e argomentati. In parole povere, i principi di giustizia presuppongono un “noi”, ma questo noi non è universalistico quanto piuttosto particolare e contingente, e quindi prevede “altri”. (Si osservi un’interessante connessione fra questa tesi e la tesi realistica: la giustizia come virtù politica presuppone, in un caso, un noi politico, definito entro istituzioni della sovranità territoriale e, nell’altro caso, un noi culturale o religioso o morale, definito entro una particolare forma di vita collettiva. Per realisti e contestualisti i confini contano, e molto.)
L’obiezione contestualistica blocca la possibilità dell’estensione a due livelli: ad un primo livello nega che sia possibile disporre di un criterio di valutazione etica degli stati del mondo, che sia indipendente dai valori di qualcuno, di un qualche noi. Quindi, nega universalismo. A un secondo livello, nega che possa essere conseguita convergenza su valori politici sostanziali, perché questi ultimi sono a loro volta inevitabilmente tributari nei confronti di un qualche noi contingente.
Nelle dieci lezioni sull’idea di giustizia di La bellezza e gli oppressi ho proposto due idee in proposito, per indebolire la presa dell’obiezione contestualistica e delineare i prolegomena a una teoria della giustizia senza frontiere. La prima, quello di sviluppo come libertà delle persone, ci dà il criterio di valutazione etica. L’idea è una riformulazione, sullo sfondo della mia distinzione fra agente e paziente morale, di alcune tesi di Amartya Sen proprie dell’approccio delle capacità, e fa perno sulla connessione fra qualità di vita di persone e scelta, indicando una pluralità costitutiva delle ragioni di eleggibilità di una vita. (La pluralità costitutiva delle ragioni di eleggibilità non implica relativismo, quanto piuttosto pluralismo, come sostengo nel capitolo sui diritti umani di La priorità del male e l’offerta filosofica.)
Si consideri: noi cerchiamo di guadagnare, passo dopo passo, un punto di vista universalistico che risponda al fatto delle differenze, su cui fa forza l’obiezione contestualistica. Per questo abbiamo bisogno di un criterio valutativo che sia indipendente da concezioni sostanziali di valore politico e sia, per quanto è possibile, invariante rispetto alle variazioni dei contesti, cui viene via via applicato. L'idea allora è che il miglior candidato per questo esercizio valutativo, un esercizio cruciale in questioni di giustizia globale, sia il criterio espresso dalla tesi sulle capacità e i funzionamenti delle persone, concettualizzate nella duplice dimensione dei pazienti e degli agenti morali. La prima idea dei prolegomena, quella dello sviluppo umano come libertà, è alla base di una giustificazione politicamente neutrale dei diritti umani fondamentali delle persone. Questo, perché adottare il criterio valutativo è coerente con il fatto del pluralismo esterno e con la varietà delle concezioni di vita buona, con l’essenziale varietà delle ragioni per cui, qua e là per il mondo, una vita umana è degna di essere scelta.
La seconda idea, quella della giustizia procedurale di base, riduce al massimo, per quanto è possibile, il ricorso a valori sostanziali e si basa sul semplice assioma di non esclusione di nessuno dal processo di negoziato, arbitrato, deliberazione e giudizio che miri a conseguire accordi equi. Audi alteram partem, come piaceva dire a Herbert Hart e come ha ricordato più volte, nella sua prospettiva della giustizia come conflitto, Stuart Hampshire. Dato il fatto del pluralismo, riconosciamo con Hampshire la divergenza, il conflitto e la differenza fra concezioni di vita buona o del bene umano - religiose, culturali o etiche - che generano concezioni sostanziali di giustizia. Al tempo stesso, mettiamo a fuoco la convergenza possibile sull'idea di giustizia procedurale minima, guardando alle pratiche sociali e non alle credenze o, se si vuole, guardando alle credenze in quanto modellate dalle pratiche. Non si danno, in questa prospettiva che assegna priorità - per dirla con Platone - alla città sull'anima, interpretazioni del senso di giustizia che non siano plasmate dal riferimento a pratiche sociali di arbitrato, negoziato, giudizio e deliberazione che, in una essenziale varietà di modi e di contesti, sono riconosciute come esemplificazioni convergenti della giustizia procedurale minima. Allora, la condizione della giustizia procedurale minima si rivela la precondizione per qualsiasi convergenza possibile in un mondo eracliteo, in cui si dà il fatto della divergenza, del conflitto e della durevole discordanza.

4. Ora, assumiamo che le nostre tre idee ci diano il criterio di valutazione, il criterio di costruzione e la prospettiva appropriata per approssimarci ad una teoria della giustizia globale. A questo punto, per amore dell’argomento, possiamo asserire che il problema dell’estensione dalla società giusta al mondo giusto, dal versante interno di comunità politiche definite da confini alla gran città del genere umano, dalla costellazione nazionale alla costellazione postnazionale, è certamente un problema molto difficile da risolvere, ma che non è impossibile risolverlo, come pretendono realisti politici (riduzionisti) e contestualisti. Ed è esattamente a questo punto che ci troviamo di fronte alla nuova questione: se è possibile, ci chiediamo, come è possibile estendere i principi di giustizia dalla polis alla cosmopolis? Ancora una volta: che cosa vuol dire propriamente giustizia globale?
Si consideri, per cominciare ad affrontare la questione, il paradigma kantiano di Per la pace perpetua e dei tardi scritti di filosofia politica e di filosofia della storia dal punto di vista cosmopolitico. Un paradigma rispetto al quale hanno dichiarata la lealtà degli eredi John Rawls e Juergen Habermas in due differenti tentativi di lavorare filosoficamente a un’idea di giustizia senza frontiere. Il paradigma kantiano si misura direttamente con quello hobbesiano, alle origini della nostra recente modernità, come si usa dire. Kant è convinto che sia possibile superare l’impasse dell’estensione. La sequenza dei tre articoli definitivi dell’immaginario trattato di pace nell’opera del 1795 scandisce, passo dopo passo, i requisiti da soddisfare per approssimarsi alla pace: il requisito del diritto pubblico interno (la forma del regime e la costituzione repubblicana), del diritto pubblico esterno (il federalismo che coincide con il diritto internazionale) e il diritto cosmopolitico (diritto che le persone hanno indipendentemente dalla comunità politica cui appartengono). Rawls ha dichiarato il suo debito nei confronti del foedus pacificum di Kant. Habermas ha tratto dal modello cosmopolitico di Per la pace perpetua la sua idea della costituzionalizzazione del diritto internazionale.
Se si considerano i due tentativi de Il diritto dei popoli di Rawls e dei saggi sulla pace perpetua, sul diritto cosmopolitico e sulla costellazione postnazionale di Habermas, possiamo mettere a fuoco due modi distinti di rispondere alla sfida dell’estensione. (4) La prospettiva di Rawls è una prospettiva incentrata sulla giustizia che deve modellare i termini equi di cooperazione fra società, definite ciascuna come unità morale (i peoples, democratici o decenti che siano). Questo spiega in che senso, secondo Rawls, la questione centrale sia quella dell’interpretazione filosoficamente favorita del diritto internazionale, che renda giustizia al mutuo riconoscimento di eguaglianza di status fra unità politiche distinte. La questione per Rawls è quella dei criteri del giudizio per la condotta di stati nell’arena internazionale (con i difficili problemi della teoria non ideale, costituiti dalle coppie di guerra e pace e ricchezza e povertà).
Si osservi che il solo pezzo universalistico del puzzle è costituito da un sottoinsieme di diritti umani fondamentali, che ha il ruolo di vincolo sulle sovranità interne e conferisce risorse di legittimità alla condotta degli stati nell’arena internazionale. La prospettiva del diritto dei popoli di Rawls resta iscritta nel quadro delle relazioni internazionali vestfaliane con le varianti connesse al ridisegno del diritto e delle istituzioni internazionali del secondo dopoguerra. In questo senso, la proposta dell’ultimo Rawls esemplifica la concezione politica della giustizia. Il suo rifiuto di adottare la prospettiva e lo strumento della posizione originaria globale e di estendere il principio di differenza al di là dei confini di unità politiche e di strutture di base delle istituzioni fondamentali è coerente con l’assunzione centrale della concezione politica, secondo cui la giustizia sociale presuppone il riferimento a una comunità politica e, quindi, presuppone che il problema della giustificazione di istituzioni e pratiche sociali valga e si formuli come tale esclusivamente nei confronti dei partecipanti a una singola e particolare forma di vita collettiva.
L’idea non è quella di un mondo giusto. E’ piuttosto quella della società delle società giuste e dei termini equi della loro cooperazione nella durata. Sembra che, in questioni di giustizia globale, la proposta di Rawls possa funzionare al meglio come un terminus a quo. Ma non ci dà, a prima vista, indicazioni promettenti che ci prospettino, anche solo a tratti, la fisionomia del terminus ad quem.

5. La prospettiva di Habermas sembra tendere, invece, verso un’interpretazione cosmopolitica e, in particolare, a mettere a fuoco le ragioni del ridisegno delle istituzioni internazionali, a partire dall’Onu, in una sorta di divisione del lavoro funzionale fra livelli di governo o di istituzioni politiche. Una ridefinizione della geografia della sovranità e delle sovranità che, come abbiamo visto, sono strettamente connesse a diritti e giustizia. (Altri filosofi globalisti, che condividono la concezione cosmopolitica come Brian Barry o Thomas Pogge, Charles Beitz, David Held o Hottfried Hoeffe disegnano architetture da Weltrepublik, evitando accuratamente di misurarsi con la celebre espressione di biasimo kantiana nei confronti del governo mondiale, definito come il terribile dispotismo, incoerente e non rispondente alla varietà delle differenze delle lingue e delle religioni.)
E’ giusto riconoscere che Habermas non ha evitato di misurarsi con la difficoltà kantiana a proposito del rapporto fra concezione cosmopolitica e concezione politica della giustizia. Ma l’interpretazione che Habermas tende a favorire delle difficoltà kantiane mi sembra insoddisfacente. Habermas è convinto che Kant non sia riuscito a chiudere il suo teorema del diritto cosmopolitico (conversione dello ius gentium in ius cosmopoliticum), perché il suo problema era praticamente insolubile nel contesto vestfaliano delle sovranità. Secondo Habermas siamo noi, eredi, con tutta l’immeritata consapevolezza dei posteri, che possiamo esplorare questa possibilità con qualche probabilità di successo, perché ci accade di vivere nella costellazione postnazionale, sullo sfondo dell’erosione delle sovranità, della politica interna mondiale, della comunità di rischio. (Un pizzico di filosofia della storia è sempre all’opera nella prospettiva habermasiana.)
Credo che Habermas, nella sua prospettiva cosmopolitica, sottovaluti le ragioni dell’oscillazione kantiana a proposito di quali istituzioni politiche siano normativamente desiderabili su scala planetaria. Sono convinto che le oscillazioni kantiane inneschino una tensione essenziale con l’alternativa hobbesiana. E penso che questa tensione essenziale sia ineludibile e feconda, se il nostro scopo è quello di esplorare le possibilità dell’estensione e le strade, i metodi per approssimarci ad una concezione plausibile e coerente della giustizia globale.

6. C’è un punto su cui Hobbes e Kant, e i loro eredi, sono d’accordo: che vi è una ragione (di tipo naturalmente diverso) alla base e a favore del contratto sociale e dell’istituzione dell’autorità politica, connessa all’avere le persone interessi o diritti. Vorrei allora concludere indicando, in modo forse sorprendente, l’importanza di almeno una considerazione realistica. Le istituzioni non sorgono e non guadagnano stabilità nella durata attraverso la virtù della giustizia. Esse sono esiti contingenti di processi e di negoziati, di conflitti e di trattati di pace, che riflettono le circostanze dell’ingiustizia. Su questo Nagel ha ragione: le vie per la giustizia muovono dal fatto dell’ingiustizia. Il punto è che, solo sotto la condizione dell’esservi istituzioni, si avanza la domanda a proposito della loro legittimità e della loro giustizia. Come ha sottolineato Bernard Williams, è perché vi sono istituzioni che si apre il campo della loro contestabilità e della richiesta variegata della loro giustificazione da parte di coloro su cui le istituzioni esercitano potere e sulle cui vite hanno effetti.
Sono processi di questo genere che, dopo tutto, hanno fatto degli stati, degli stati-nazione, i luoghi par excellence della legittimità politica e i campi della contestabilità nel tempo, gli spazi della ridefinizione dei contratti sociali. Questo, alle nostre spalle, nella vicenda moderna degli stati. Nella costellazione nazionale.
Mi chiedo, ancora una volta: perché le cose dovrebbero stranamente essere così diverse nel caso cruciale della costellazione postnazionale? Ma se è così, posso concludere richiamando la logica dei miei esercizi di prolegomena delle lezioni di La bellezza e gli oppressi, il passo, il primo passo nella direzione di una teoria della giustizia globale, alla luce delle tre idee fondamentali proposte, sarà quello i) di saggiare la legittimità delle istituzioni internazionali che vi sono, modellate dalla costellazione nazionale, e ii) anticipare, scrutando i segni dei tempi e non rinunciando ad esplorare possibilità, la validità delle istituzioni internazionali che dovremmo poter desiderare nel futuro.
Per quanto riguarda i), istituzioni e pratiche esistenti dovrebbero essere sottoposte a verifica di legittimità sotto il profilo del grado maggiore o minore di inclusività nei confronti di tutti coloro sui cui prospetti di vita esse hanno effetti, alla luce dell’idea di giustizia procedurale di base. Allo stesso modo, istituzioni e pratiche esistenti dovrebbero essere sottoposte a verifica di legittimità adottando, per la valutazione degli effetti sui prospetti di vita delle persone, il criterio dello sviluppo come libertà nella versione agente-paziente. Per quanto riguarda ii), la prospettiva dell’utopia ragionevole ci guida a sua volta nell’esame e nello scrutinio delle possibilità alternative, entro la cornice delle istituzioni e delle pratiche esistenti, sottoposte alla verifica della maggiore o minore legittimità e accettabilità per ragioni di giustizia. In tal modo, potremmo aderire alla massima di Stanley Hofmann e muovere, passo dopo passo, da come le cose stanno a come potrebbero stare, alla luce di un’idea di giustizia globale. Così l’esercizio paziente del saggiare legittimità e dell’anticipare validità, alla luce della tensione essenziale fra gli eredi di Hobbes e gli eredi di Kant fra concezione politica e concezione cosmopolitica della giustizia globale, delinea qualcosa come un percorso dal presente al futuro. Un futuro semplicemente meno inaccettabile e ingiusto del presente. Un futuro possibile, anche in tempi molto difficili.
Perché non dovremmo dimenticare che, dopo tutto, come diceva a lezione il professore di Geografia fisica di Koenigsberg ai tempi del recente Illuminismo europeo, dato che la terra è tonda, noi siamo dei tipi destinati prima o poi ad incontrarci.
Salvatore Veca


NOTE
(1) Cfr. T. Nagel, The Problem of Global Justice, “Philosophy and Public Affairs”, 33, 2, 2005, pp. 113-147.
(2) Cfr. La priorità del male e l’offerta filosofica, Feltrinelli, Milano 2005.
(3) Cfr. La bellezza e gli oppressi, Feltrinelli, Milano 2002.
(4) Cfr. J. Rawls, Il diritto dei popoli, tr. it. di G. Ferranti, Edizioni di Comunità, Torino 2001; J. Habermas, L’inclusione dell’altro, tr. it. di L. Ceppa, Feltrinelli, Milano 1998; L’Occidente diviso, tr. it. di M. Carpitella, Laterza, Roma-Bari 2004.





Nessun commento: